PAROLA A RISCHIO

Gioele maestro di versi profetici

La capacità di leggere nelle pieghe degli eventi per scorgere la presenza di Dio.
Tonio Dell’Olio

Il corto circuito tra profezia e poesia è capace non solo di generare pagine meravigliose, ma anche di proiettare una luce nuova sulla vita. Forse qualcuno di noi ha pianto quando Mario Luzi ci ha lasciati, forse qualcuno di noi, con struggente nostalgia e sfamandosi di preghiera, corre a rileggere ogni tanto i versi di David Maria Turoldo. Le parole della poesia non sono soltanto una pagina che si ricama con merletti di parole, sono la capacità di visitare la storia in punta di piedi e, al tempo stesso, di percorrere la terra come un aratro. La poesia mette a nudo la profondità, fa scoprire le sfumature variopinte della verità, racconta in versi la vita, anche quella che ci passa tra le dita come sabbia senza che noi la riconosciamo. Lo confesso, subisco il fascino della poesia perché aiuta a guardare dentro. Alle cose e all’anima. Alla storia e all’atomo. Lasciate guardare a un poeta vero la trasparenza di Gioele. un evento e vi accorgerete che c’era un’anima laddove voi vedevate la scorza dura della vita. Quando è un poeta a dare voce ai sentimenti, inevitabilmente vi riconoscete. Un poeta vero non parla con le parole sue ma con quelle tue. Ti ci riconosci. Dice esattamente quello che tu avresti voluto, ma hai annaspato sullo spartito della grammatica. Mendicante di versi, le tue mani sono rimaste drammaticamente vuote. Avresti gridato ma ti sei scoperto rauco, afono, capace solo di vento. Per tutto questo credo che la poesia sia una parente intima della profezia. Come la profezia, la poesia guarda in profondità, coglie il senso delle cose (dei fatti, della vita, delle emozioni, dell’anima…) e lo grida forte perché tutti possano ascoltare. Lo sussurra piano perché quella voce possa muovere corde che il giornale non muove.

Poche pagine per un dire profondo
Gioele ha fatto pressappoco così. Un profeta quasi anonimo. Di lui conosciamo il nome con cui ci viene tramandato e la paternità di Petuél cui lo stesso libro fa riferimento. Difficilmente si riesce a collocarlo in un periodo storico e in una zona geografica precisi. È semplicemente il profeta Gioele che racconta il flagello di cavallette. Alle persone lontane dal territorio in cui si consuma quell’evento e a quelli che ignorano le trepidazioni dei contadini, l’invasione delle cavallette non riesce a dire proprio nulla. Forse proprio per questa ragione, Gioele si pone al servizio della sua comunità e dei credenti d’ogni epoca raccogliendo il filo sottile di quel disastro per tessere trama e ordito di una tela in cui sia Dio a parlare. “Il giorno del Signore” infatti è la categoria cui il profeta fa ricorso per far comprendere quanto Dio non sia estraneo al destino degli uomini e che il suo progetto è di tenerezza e di misericordia e mai di sciagura. È l’invito a guardare più in là della propria contemporaneità nel tentativo di associarsi allo sguardo planetario ed eterno del Signore. Ciò che rende Gioele particolare è il ricorso al verso piuttosto che alla descrizione o all’esortazione. Ancora più profondo è poi l’insegnamento per il quale non si deve confondere il disastro (delle cavallette) con “il giorno del Signore” perché il suo giorno è più lungo dei nostri giorni e noi dobbiamo vivere dentro di esso con fede consapevole e atteggiamento penitenziale. Su questa via è possibile rivolgersi a Dio dicendogli: “Il Signore si mostri geloso per la sua terra, e si muova a compassione per il suo popolo” (2, 18). In questo dialogo di toccante implorazione Dio può rispondere: “Ecco io mando il grano, il vino nuovo e l’olio e ne avrete a sazietà; non farò più di voi il ludibrio delle genti” (2, 19). Infine non si può almeno accennare al passaggio che rende Gioele noto anche ai frequentatori del Nuovo Testamento. Egli riferisce l’effusione dello Spirito come un dono di Dio che raggiunge tutti. Proprio tutti: “Anche sopra gli schiavi e sulle schiave, in quei giorni, effonderò il mio spirito” (3, 2). È il segno eloquente di un Dio che, amando il suo popolo, gli dona il regalo più bello e più importante.

Caro Gioele,
su questa terra violentata dalla guerra e percorsa dal dolore di madri che vedono i propri figli sfiorire tra le braccia, ha ancora senso parlare in versi? La poesia sembra la più beffarda delle irrisioni per chi ha la pelle solcata dalle ulcere dell’ingiustizia. Cosa vuoi che importi ai torturati di Abu Graib delle tue raffinate metafore e delle immagini di dolce abbondanza con cui coroni la terra di Sion? A che serve questo tuo poetare in nome di Dio quando invece ai più sembra che quello stesso Dio taccia o pronunci parole violente? Nell’inconfessata comprensione dei più, lo Tsunami è sembrato una tragedia pronunciata da Dio o che almeno non ha visto Dio pronto a fermare quel dolore immane che si è abbattuto sulla povera gente. Altro che cavallette! E a tutto questo ora si aggiunge, come sale sulle piaghe aperte, questo orribile oblio che segue all’emergenza. Un’indifferenza che non riesce a considerare che ciò che noi chiamiamo emergenza è cancrena in quelle aree dell’Asia come in tante altre parti del mondo. Ora dimmi se le poche e misere pagine del tuo libro servono almeno da unguento per quelle ferite.
Caro Gioele, forse i quattro capitoletti con cui ci rispondi provocano le nostre coscienze a ricercare risposte più profonde. Forse la prima lezione del tuo piano didattico consiste nell’indicarci la via maestra che ci smarchi dalla piatta banalità in cui oggi ci sentiamo quasi irrimediabilmente costretti. Leggere nell’intimo delle cose è possibile solo se sfuggiamo alla presa dei reality show “saggiamente” dosati per rapire l’attenzione dei semplici. Possiamo ricercare risposte agli interrogativi di senso e offrirli soprattutto ai giovani se ci sottraiamo all’abbraccio mortifero di una cultura che non declina più le parole della vita e flirta sottilmente con la morte. Le cavallette, Gioele, eccole le cavallette! Stanno scendendo a frotte: “Piombano sulle città, si precipitano sulle mura, salgono sulle case, entrano dalle finestre come ladri” (2, 9) ma, a differenza delle tue cavallette, queste hanno il potere di penetrare anche nelle coscienze, di far apparire vero il falso e falso il vero. Questi eserciti organizzati dai poteri forti sono il nuovo impero che non si accontenta di minacciare e di distruggere, ammalia e seduce, raffinatamente sparge filtri da fattucchiere che sopiscono come oppio. Lo chiamano pensiero unico e pretendono di avere anche Dio dalla loro parte. Ma Dio è il protagonista scalzo di queste vicende. È il debole rappresentato dalla croce, travolto egli stesso dall’onda assassina, capace forse soltanto di ascoltare e gridare più forte lo stesso dolore dei bambini, delle donne, dei loro mariti e dei loro padri. E forse è per questo che alcuni non lo trovano e altri non lo riconoscono: perché si nasconde tra le case degli uomini e si confonde nel loro quotidiano fluire.
Caro Gioele, servono i tuoi versi profetici! Servono a rivelare la presenza di Dio. Come una sostanza di laboratorio, che versata su una superficie assume un altro colore, la poesia che passa nei vicoli bui delle case dei poveri dà un volto al Signore della vita e della storia. Per questo la profezia poetica non irride ma rende forti i passi dei semplici tanto che il proposito di Dio è che: “Dopo questo, io effonderò il mio spirito sopra ogni uomo e diverranno profeti i vostri figli e le vostre figlie; i vostri anziani faranno sogni, i vostri giovani avranno visioni” (3, 1). Forse proprio quella poesia creativa e profetica che muove le coscienze, denuncia i mali e indica il futuro è l’ultimo baluardo capace di arginare l’inondazione tragica del pensiero unico della competizione, lo Tsunami del consumo, il maremoto del materialismo che nega l’anima degli individui e dei popoli e vede solo terre di conquista. E ora mi scuserai, Gioele, non ti sembri irriverente se lascio che sia un poeta dei miei giorni a esprimere il sentimento con cui chiudere questa lettera: Io vorrei donare una cosa al Signore, / ma non so cosa. / Andrò in giro per le strade / zufolando, così, / fino a che gli altri diranno: è pazzo! / e mi fermerò soprattutto coi bambini / a giocare in periferia, / e poi lascerò un fiore / ad ogni finestra dei poveri / e saluterò chiunque incontrerò per via / inchinandomi fino a terra. / E poi suonerò con le mie mani / le campane sulla torre / a più riprese / finché non sarò esausto. / E a chiunque venga - anche al ricco - dirò: / siedi pure alla mia mensa (anche il ricco è un povero uomo). / E dirò a tutti: / avete visto il Signore? / Ma lo dirò in silenzio / e solo con un sorriso (David Maria Turoldo, aprile 1983).

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