La democrazia nella Chiesa
I funerali per la morte di Giovanni Paolo II hanno presupposto una commozione universale. Per alcuni giorni nella monodimensionalità degli schermi mondiali si è aperto uno spiraglio attraverso cui si annunciava la Trascendenza. La Chiesa compariva in tutto il suo splendore…e con tutti i suoi interrogativi. Un uomo lo occupava interamente. Attorno a lui cardinali e vescovi, con vesti tanto solenni quanto anacronistiche. Non una sola donna. Stupore, se non scandalo, per la forma, eredità di un passato che non è più, né può più essere, nostro. Un buon momento per meditare sulla costituzione della Chiesa. E sulla sua relazione con la democrazia. Relazione difficile per il carico di sacralità, ma decisiva per l’urgenza della sua necessaria attualizzazione storica. Una modalità di governo monolitica, verticale, maschile, non elettiva e vitalizia contrasta con le consuetudini conquistate dalla società e dalla cultura nel presente. La Chiesa non può certo minimizzarle.
Le ragioni teologiche
Una tradizione costante pare indicare che la democrazia non sarebbe applicabile alla Chiesa. Però il senso storico e la nuova lettura critica della Bibbia offrono fondamenti sufficienti per una diversa visione. Anzi, tutto indica che il non tenerne conto, il non avviare le necessarie riforme, sta producendo un grave danno sia alla credibilità della fede che alla realtà stessa della vita ecclesiale. Il Concilio Vaticano II ha riconosciuto che la Chiesa deve essere sempre in via di riforma e di purificazione (LG, 8). E ha posto in posizione di base ultima e radicale la comunità, mostrando tutto il resto come funzioni ad essa interne e al suo servizio. Ciò che manca è l’applicazione concreta, tenendo ben presente che sono in gioco le modalità del suo esercizio effettivo. Il problema non è l’origine ultima dell’autorità, ma la sua amministrazione comunitaria.
Già alcuni anni fa Karl Rahner affermò, in modo solo a prima vista sorprendente, che la Chiesa mostra verso la democrazia un’affinità più forte e radicale della stessa società civile. Perché a quest’ultima le persone appartengono per il semplice fatto di nascere; mentre “la Chiesa, intesa nella sua estensione sociale, si fonda unicamente sulla libera fede dei suoi membri”. Inoltre in essa trovano una patria naturale le strutture antropologiche di base su cui si fonda e si sostenta lo spirito democratico, come i valori di partecipazione e solidarietà, di servizio e di non dominio, di amore e fraternità. Ma al di sopra di tutto troviamo l’insegnamento e il comportamento di Gesù, che su poche questioni risultano così incontrovertibili come in questa: “Sapete che quanti sembrano essere i più ragguardevoli tra le genti esercitano su di queste il loro dominio e i loro capi la fanno da padroni. Non dovrà essere così tra voi, ma chi vorrà essere il più grande dovrà diventare servo e chi vorrà primeggiare sarà schiavo di voi tutti. Infatti il Figlio dell’uomo non è venuto per farsi servire ma per servire gli altri e dare la vita in riscatto delle moltitudini” (Mc 10,42-45; cfr. Mt 20,25-28; Lc 22,25-27). Il quarto Vangelo rafforza l’appello: “Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovrete lavarvi i piedi l’uno all’altro. Vi ho dato infatti l’esempio perché, come ho fatto io, così facciate anche voi” (Gn 13,12-15).
Sicché il principio risulta totale e senza eccezione: in qualunque ambito ecclesiale, l’unico comportamento legittimo, soprattutto per quanti detengono un’autorità, è sempre quello dell’uguaglianza a partire dal basso, quello del servizio umile, della comunione profonda nel compito comune. Il Vaticano II, quando parla di “autorità e potestà sacra” a proposito del governo episcopale, specifica espressamente: “Tenendo conto che chi è il più grande deve farsi il più piccolo e chi è superiore deve farsi servo (cfr. Lc 22,26-27)” (LG, 27).
Le ragioni sono, evidentemente, chiare e poderose. Perchè non hanno sortito maggiore efficacia? A parte le tentazioni del potere, soprattutto per tre motivi:
1) Il positivismo della tradizione che, rafforzato dalla tendenza a sacralizzare tutta la sfera del religioso, ha molte volte convertito in principio ciò che era mero influsso esterno. Modi che con ogni evidenza si radicano nel mondo ellenistico e nell’impero romano, passati attraverso il
2) Il fondamentalismo della Scrittura, rafforzato da un soprannaturalismo dualista. Il risultato è stato il ben noto pensiero ecclesiologico: Gesù avrebbe fondato in maniera diretta e con parole esplicite una Chiesa, come società perfetta, dandone l’autorità diretta e totale agli apostoli, che a loro volta si dovevano sottomettere a Pietro. Venne così a costituirsi una gerarchia di diritto divino, tenuta a riprodursi per successione verticale, e quindi senza nessun tipo di elezione da parte della comunità.
3) l soprannaturalismo dell’ordinazione, interpretata come una specie di miracolo invisibile causato da Dio, senz’altra mediazione che quella del segno sacramentale. La persona viene così letteralmente marchiata dal “carattere” indelebile, che la “segrega” dalla comunità, per operare non con essa, ma al di sopra/su di essa. Questo conduce a dare per scontato il carattere vitalizio delle cariche gerarchiche e rende facoltativa la participazione del popolo, che secondo Pio X “non ha altro diritto che quello di lasciarsi condurre e di seguire docilmente i suoi pastori”.
Tutto ciò è il prodotto di quella che è appropriato qualificare come concentrazione gerarchica, che tende ad assorbire le differenti funzioni e carismi. La stessa teologia, invece di potenziare criticamente e creativamente la funzione di governo, si è ridotta a mera conferma e legittimazione delle sue decisioni. Da cui la quasi costante “demonizzazione della critica”, forse l’handicap più grave nel percorso attuale della Chiesa.
Il cambiamento possibile
La scoperta delle cause indica le possibilità del cambiamento. Vale la pena concentrarsi sul punto nodale: l’origine del potere. Il rifiuto della democrazia nella Chiesa fa leva sul seguente ragionamento: “Nella società civile l’autorità viene dal popolo, mentre nella Chiesa viene da Dio”; per questo la democrazia non può essere applicata al mistero ecclesiale. Il testo più citato circa l’origine divina dell’autorità è Rm 13,1: “Non c’è autorità se non da Dio” che si riferiva all’imperatore romano, cioè all’autorità civile. La riflessione teologica interpretò anche per l’autorità religiosa ciò che era stato detto per quella civile. A tal riguardo, facendo leva sulla tradizione aristotelica, la teologia comprese molto presto che l’origine divina non impediva le mediazioni umane. È esistita praticamente unanimità fra i teologi su quello che più tardi avrebbe espresso così Giovanni XXIII nella Pacem in terris: “Tuttavia per il fatto che l’autorità viene da Dio, non ne segue che gli esseri umani non abbiano la libertà di scegliere le persone investite del compito di esercitarla, come pure di determinare le strutture dei poteri pubblici, e gli ambiti entro cui e i metodi secondo i quali l’autorità va esercitata. Per cui la dottrina sopra esposta è pienamente conciliabile con ogni sorta di regimi autenticamente democratici” (n. 52; cf. Gaudium et spes, 74).
Tutto, però, cambia quando se ne fa l’applicazione alla Chiesa. Qui prevale la lettura fondamentalista dei testi in cui Cristo sembra collocare direttamente Pietro e gli apostoli al governo della Chiesa – “Tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia Chiesa” (Mt 16,18-19) –, come dei testi relativi alla vocazione e missione dei Dodici. Quando i nominalisti e i conciliaristi cercarono di stabilire il parallelo tra il Papa e l’imperatore, la scuola tomista sosteneva che “il sovrano pontefice governa la Chiesa per istituzione immediata di Dio e non per delega del popolo come l’imperatore”. Di qui che il potere papale non possa essere limitato né moderato dalla comunità ecclesiale. Il famoso Dictatus papae di Gregorio VII, affermando che “la sua sentenza non può essere riformata da nessuno, e solo lui può riformare quelle di tutti”, era la conseguenza logica di questa posizione. Con il risultato che, mentre la comunità politica evolse verso forme democratiche, la comunità ecclesiale non lo fece, in aperta contraddizione alla ammonizione di Gesù a essere meno autoritari e dominatori “dei capi dei popoli”.
La mediazione comunitaria accettata dalla società civile trova uguale o perfino maggiore applicazione in quella ecclesiale. Data l’importanza del tema, vale la pena indicare, benché solo in maniera schematica, due ragionamenti principali: la lettura biblica e la concezione ecclesiologica.
1) Con una lettura letteralista, si poteva pensare a un mandato esplicito e dettagliato di Gesù circa il governo ecclesiale. Oggi sappiamo che si deve perfino sfumare l’affermazione che Gesù volle “fondare” la Chiesa. La si può solo convalidare criticamente, facendo attenzione non tanto alle sue parole, quanto alla sua intenzione profonda. Il che vale ancora di più quando si tratta del modo di governarla.
2) Il Vaticano II nella Lumen Gentium ha realizzato un’autentica “rivoluzione copernicana” del modello preconciliare, collocando il “mistero della Chiesa” (cap. I) nella sua prima e radicale natura di “popolo di Dio” (cap. II), ed esponendo la sua “costituzione gerarchica” solo dopo, dentro questa base comune (cap. III). Resta palese che i ministeri nascono in seno alla Chiesa, che abitata e mossa dallo Spirito li fa sorgere al servizio del suo essere e della sua missione.
Si comprende che Karl Lehmann, Presidente della Conferenza Episcopale Tedesca, abbia commentato: “Se si esamina a fondo questa relazione fondamentale, risulta veramente sorprendente che ci siano nella Chiesa così poche ‘strutture democratiche’ nel senso spiegato. Perché vi sono tante cose nella Chiesa che, per lo stile e per la forma, non sono chiaramente ‘democratiche’? […] L’acredine con cui si suole invocare il postulato della democrazia e la durezza con la quale si suole rifiutare in blocco, riflettono in parte la situazione quasi patologica in cui si trova il problema del ministero nella Chiesa, e questo su tutti i fronti”.
Più che democrazia
Se per salvaguardarne lo specifico religioso si preferisse evitare la parola “democrazia” come categoria politica, sarà necessario però salvaguardarne il contenuto fondamentale: se non democrazia, allora molto più che democrazia. “Tra voi non dev’essere così”, cioè prevalga uno stile ancora più “democratico”, più libero, ugualitario, partecipativo e antiautoritario.
Lo stesso bisogna dire del simbolo, quale è il “popolo di Dio”, che non può essere ribassato o escluso per insistere solo su quelli di “mistero”, “sacramento” o “Corpo di Cristo”. Non si tratta di negare il loro valore perché esprimono bene aspetti quali l’intima comunione o l’iniziativa divina. Ci sono, però, altri aspetti, quali la responsabilità, la libertà o l’uguaglianza che si avvertono più chiaramente nel simbolo del “popolo”. Insistere su alcuni a fronte di altri, può essere utile per completare.
Esiste un’altra obiezione molto comune: la Chiesa, si dice, non è padrona della verità divina, la quale pertanto non può essere “oggetto di votazione democratica”. Proprio perché non è padrona della verità, deve cercarla con tutti i mezzi e la ricerca democratica è la più efficace e libera dalle manipolazioni del potere. Lontano dall’impadronirsi della verità, la collaborazione di tutta la comunità costituisce la maniera più umile di essere fedeli allo Spirito.
Questo implica due conseguenze. La prima, un’umile disposizione a imparare da tutti gli avanzamenti della coscienza umana. In realtà, sono molti e molto decisivi i valori che, con indubbia radice nel Vangelo, sono stati ricordati alla Chiesa dalla cultura profana. La seconda consiste nella necessità di contribuire anche positivamente e criticamente al processo. Perché non si tratta senz’altro di assumere la democrazia così come è data di fatto. Una Chiesa che ascolti umilmente il Vangelo – incominciando con l’applicarlo a se stessa – ha molto da dire a un mondo che troppe volte, in nome della democrazia formale, dimentica i più poveri.
Qui si aprono strade per rispondere al richiamo della storia. Temi come il rapporto del Papa con i vescovi, da avvicinare maggiormente allo stile di un primus inter pares, e il potenziamento del sinodo dei vescovi e delle Conferenze Episcopali, soprattutto in rapporto con la Curia Romana, sono presenti nella coscienza generale. Intimamente unita a questo è la questione dell’elezione dei vescovi, in conformità a quel principio così tradizionale, ovvio e umano: “Quello che concerne tutti, da tutti dev’essere trattato e approvato”. Più delicato forse è il problema dell’elezione a tempo determinato. Il costume abituale, secondo cui le alte cariche nella Chiesa sono vitalizie, si sta mostrando fortemente non funzionale nel nostro tempo. In realtà, la disposizione canonica del ritiro a 75 anni per i vescovi non presenta qualitativamente nessuna differenza fondamentale: si tratta in fondo della stessa cosa, semplicemente con lassi di tempo più brevi. Gli ordini religiosi in maggioranza, già da tempo, si governano con cariche a elezione temporanea e non vitalizia.
La teologia femminista, da parte sua, ha reso indilazionabile la revisione, fino alla piena uguaglianza, del ruolo della donna nella Chiesa. Scuse pratiche o ragioni astoriche non possono continuare a zittire il testo nucleare e fondante di Paolo: “Non c’è Giudeo né Greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio né femmina, perché tutti voi siete una cosa sola, in Cristo Gesù” (Gal 3,28).
Infine, si possono segnalare, con K. Rahner, tre punti molto importanti, sui quali ci attendono ancora profondi dibattiti teologici. Primo: cercare modi reali ed effettivi di un’autentica rappresentanza laicale, maschile e femminile. Secondo: prendere molto sul serio l’esistenza e lo stimolo di comunità di base, con strutture più flessibili. Terzo: riconosciuta la necessità della formazione di un’opinione pubblica nella Chiesa, conviene aprire ad essa alvei effettivi, senza rifuggire dal corrispondente pluralismo.