PACE

L’ortodosso innovatore

Proprio perché rigorosa espressione dell’ortodossia, Papa Benedetto XVI può affrontare con sicurezza le grandi questioni irrisolte. Di oggi.
La principale: l’umanità è già una e indivisa.
Nessuna esclusione è possibile. Nessuna selezione è possibile.
Intervista a Raniero La Valle a cura di Francesco Comina

Raniero La Valle non ci sta a bollare aprioristicamente Benedetto XVI come l’uomo di ghiaccio dell´ortodossia cattolica. Certo, Ratzinger è un conservatore, ha diretto l´ex Sant´Uffizio senza concedere sconti a nessuno. Eppure – ricorda perfino Hans Küng – è spesso accaduto che uomini partiti come conservatori alla guida della Chiesa siano diventati progressisti e viceversa. Per Ratzinger, argomenta La Valle, sarà quindi più facile rinnovare la Chiesa nel mondo rispetto a uno da tutti considerato progressista.

Ratzinger non é mai apparso un appassionato annunciatore di pace. Dobbiamo attenderci una lettura della pace in chiave spirituale e un abbandono della profezia “politica” della pace come unico strumento valido per un dialogo fra le civiltà?
Il cardinale Ratzinger ha ripreso il nome di un pontefice dimenticato, ma di bruciante e suprema attualità: perché Benedetto XV è il Papa che nella prima guerra mondiale vide come in figura tutte le guerre del Novecento, fino all’attuale perpetua e infinita, e la bollò senza appello come “inutile strage”. Tuttavia il problema della pace si pone oggi in modo del tutto nuovo, anche rispetto a come dovette affrontarlo Papa Wojtyla. Il Papa polacco veniva dall’altra parte del mondo diviso e il suo problema fu di ricomporlo.
Ma quella divisione era molto meno grave di quell’odierna. Allora era ideologica, tra Occidente e Oriente, tra un capitalismo non ostentatamente selvaggio come è ora e un comunismo in declino. È vero, c’era una gara brutale su chi dovesse prevalere, ma era vivissima nei due campi la percezione di un’unità di destino, c’era l’idea che nessuno potesse vincere al prezzo della catastrofe degli altri perché un conflitto nucleare avrebbe coinciso con la fine della civiltà umana sulla terra.
Lo stesso Terzo Mondo schierandosi da una parte o dall’altra poteva fare la differenza; certo per molti di quei Paesi, ciò comportava un prezzo altissimo, in termini di libertà e regime politico (basti pensare alle dittature militari imposte nell’America Latina), però nessun popolo poteva essere cancellato come “inutile” perché non partecipe al processo economico oppure odiato come canaglia; non si sarebbe potuta fare una guerra a un Paese arabo per andarsi a prendere il suo petrolio. Il massimo obiettivo strategico era la dissuasione dell’avversario dall’aggredire; nessuno pensava di togliergli dalle mani le armi di distruzione di massa se non attraverso trattative bilaterali, e tanto meno si pensava che il dissuadere fosse fatica sprecata, e l’unico modo di stare tranquilli fosse distruggere preventivamente il nemico.
Perciò la Chiesa con Papa Giovanni aveva potuto respingere i profeti di sventura, celebrare l’unità di tutta la famiglia umana e compiacersi come di un segno dei tempi della sopravvenuta convinzione generale dell’irrazionalità della guerra, della sua estraneità alla ragione. Posizione che doveva rivelarsi fondata, se il sistema sovietico si è dissolto dall’interno e il muro della divisione è stato aperto dagli stessi che l’avevano costruito, senza un morto. Oggi invece la divisione è antropologica, suppone che l’umanità sia inevitabilmente spartita in vincenti e sconfitti, prescelti e scartati, necessari ed esuberi.
Tutti sono potenzialmente il nemico, il cui nome è legione; e non ci sono più singole guerre, che cominciano e finiscono, ma un’unica guerra dai suoi artefici definita e vissuta come perpetua e infinita. Non siamo all’affermazione anche teorica della disuguaglianza tra gli esseri umani, della loro ontologica suddivisione in uomini e non uomini, come fu per i conquistatori riguardo agli indios o com’è per i bramini rispetto ai fuori casta; ma la durezza della selezione tra “consumatori” e “non consumatori”, tra sazi e affamati, Stati per bene e Stati canaglia, destinati alla salvezza e votati alla perdizione, insomma tra inclusi ed esclusi, si traduce in una sentenza di morte preventiva, a designare due umanità concorrenti e alternative sulla terra.
Per farsi artefice della ricomposizione e segno e strumento dell’unità di tutto il genere umano, la Chiesa deve anzitutto salvaguardare la propria autonomia dai poteri mondani. Lo fece Giovanni Paolo II in occasione della guerra dell’Iraq e come rivendicò il cardinale Ratzinger quando – rispondendo a uno di quegli “atei devoti” che domandavano alla Chiesa di incorporarsi nell’Occidente per fornire i suoi conforti spirituali a una cristianità non più credente, ma tentata di gettarsi nello “scontro di civiltà” – disse con fermezza che questo era escluso, “per ragioni storiche, teologiche ed empiriche”: storiche perché la Chiesa è nata in Oriente e già la sua prima evangelizzazione si spinse fino all’India, teologiche perché il suo statuto, la sua “ortodossia” è l’universalità, ed empiriche perché i suoi fedeli e lo spazio del suo annunzio sono ormai per la maggior parte fuori e oltre l’Occidente.
Sicché si può pensare che Papa Benedetto difenderà l’autonomia della Chiesa dai poteri più forti, a cominciare da quelli supremi degli Stati Uniti e del Mercato globale. Per la Chiesa, la pace oggi significa ricomporre l’unità della famiglia umana, evangelizzare vuol dire dare la buona notizia che tutta l’umanità è già una, ricompresa nell’amore di Dio e il massimo compito politico è spostare i soggetti della modernità e i signori del mercato dal pregiudizio secondo cui non tutto il mondo si può salvare e la selezione è inevitabile al presupposto irrinunciabile che l’umanità è una.
La sfida sembra sovrumana. In effetti occorre il coraggio della libertà, che nella tradizione cristiana viene dalla fede. Senza dubbio Papa Benedetto è un uomo di fede, e anzi gli si rimprovera di declinarla nelle forme di un’immobile ortodossia. Ma chi non ha bisogno di dimostrare di essere ortodosso può avere più forza di un pavido innovatore. E c’è più libertà e coraggio dalla fede che non dal pragmatismo di chi si barcamena tra fissità e riformismo, che è la vera origine di tutti i moderatismi, laici e clericali.
Dunque la pace è difficile, ma la speranza è possibile.

Non c’è pace senza giustizia né giustizia senza pace. Benedetto XVI non potrà non affrontare l’enorme problema della disuguaglianza fra i continenti e le classi. Che possiamo attenderci?
La pace non c’è soprattutto perché uno dei suoi pilastri, secondo la “Pacem in terris”, la giustizia, è venuta meno. Ma non solo la giustizia distributiva, la cui mancanza provoca gli insostenibili divari tra povertà e ricchezza; negata è la giustizia che, stando alla Repubblica di Platone, consiste nel “fare ciascuno la cosa propria”, cioè che ciascuno si realizzi e consegua il suo fine secondo la propria natura. La natura dell’umanità consiste nella dignità, per cui tutti gli esseri umani sono eguali, e nell’unità, per cui tutta la famiglia umana, come ha un’unica origine, così ha un unico destino. Far sì che l’umanità si svolga in questo modo è giustizia, ingiusta è invece ogni forma politica che sconti come la ricchezza e la sicurezza degli uni sia da pagare al prezzo della catastrofe per gli altri; ingiusto è pensare e progettare che i mondi siano due, uno a perdere e l’altro da salvare, giustizia è pensare che il mondo è uno. Questo è il punto cruciale della politica mondiale.

Eppure chi nella Chiesa ha cercato di aprire gli occhi sulle oppressioni è stato colpito dalle “politiche” vaticane (vedi teologia della liberazione). Ci si può attendere un mutamento di rotta?
In America Latina l’elezione del nuovo Papa ha suscitato preoccupazione, perché la teologia della liberazione è stata messa sotto accusa mentre il cardinale Ratzinger era Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede. Ma nulla dice che Benedetto XVI non scelga un Prefetto dell’ex Sant’Uffizio più liberale. In ogni caso la questione dei poveri resta centrale, perché è la questione stessa del mondo escluso. Comunque la povertà economica, sociale, di conoscenze e diritti, civile e politica sono piaghe da estirpare; ma la povertà come condizione creaturale e riconoscimento del limite, come interdipendenza e bisogno gli uni degli altri, la povertà come mancanza dell’altro e quindi come amore, va rivendicata e assunta, contro tutte le antropologie perfettiste, le ideologie dell’autosufficienza, le illusioni della ricchezza come fonte di libertà.

Il tema della vita sarà centrale anche in questo pontificato. Eppure la vita non é solo l´embrione al suo stadio nascente, è il diritto del povero ad avere la sua ciotola di riso, il diritto dei popoli alla libertà, il diritto della foresta a non essere distrutta. Un tema difficile per Papa Ratzinger?
Secondo il racconto biblico il sabato Dio si riposò. Fino a quel momento aveva creato il mondo e l’umanità. La Torah ha interpretato il Sabato nel senso che anche l’uomo deve riposare. Io penso che il Sabato sia il momento in cui Dio si ritrae per fare spazio all’uomo, lui si ferma e noi cominciamo. È il tempo del lavoro. E il creato sta nelle nostre mani. Come abbiamo imparato nel Novecento, possiamo distruggerlo. La Chiesa è la rappresentazione nel mondo delle intenzioni di Dio che ci ha dato la creazione in custodia, ma non l’ha abbandonata, e sta con noi perché essa continui. La salvaguardia del creato è, come direbbe Bonhoeffer, un “mandato” di Dio. E se la Chiesa non lo adempie, se filtra il moscerino e lascia passare il cammello, se difende la vita in provetta, ma lascia che sia deforestata la terra, dov’è la salvezza? Il nuovo Papa, fin dalla sua scelta del nome, ha mostrato di volersi rifare alla Grande Tradizione, fino a quella della Chiesa indivisa del primo millennio, di San Benedetto e Gregorio, dei Padri che leggevano tutta la storia come “historia salutis”, fino a Pietro e a Paolo e a quell’evento del primo giorno dopo il Sabato che fu la resurrezione di Gesù, nel quale lo stesso creato era chiamato a una vita nuova. Ciò fa pensare che sarà più un Papa delle profondità che della superficie, più della parola che dell’immagine, più dell’intero che del frammento. E dunque cosciente che si deve salvare la terra. Lavorare per l’unità delle Chiese sorelle, per il dialogo tra le religioni e le culture, per la ricomposizione dell’unità dell’intera famiglia umana è la via per questa salvezza.

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