ECUMENISMO

La fede inclusiva

Abbandonare ogni pretesa. Di verità assoluta. Il dialogo con le altre religioni può partire solo modificando l’atteggiamento. E i presupposti teologici. Appunti per un ecumenismo che non è ancora nato. Ma di cui abbiamo bisogno. Urgente.
Carlo Molari

Il problema del dialogo con le altre religioni è certamente un tema centrale per il futuro della Chiesa e quindi un capitolo obbligato nell’agenda del nuovo Papa.
Giovanni Paolo II ha lasciato un’eredità dottrinale non sempre corrispondente alla ricchezza dei gesti straordinariamente innovatori compiuti. La Curia romana, infatti, non ha sviluppato tutta la ricchezza dottrinale delle sue scelte.
La teologia del pluralismo religioso ha avuto ampi sviluppi negli ultimi decenni, ma in questi ultimi anni, in particolare dopo la pubblicazione della Dichiarazione Dominus Jesus (DJ) della Congregazione per la dottrina della fede (6 agosto 2000), la riflessione è in una fase di stallo. La

Anch’io ho avuto un sogno
[…] Un terzo sogno è che il ritorno festoso dei discepoli di Emmaus a Gerusalemme per incontrare gli apostoli divenga stimolo per ripetere ogni tanto, nel corso del secolo che si apre, un’esperienza di confronto universale tra i vescovi che valga a sciogliere qualcuno di quei nodi disciplinari e dottrinali che forse sono stati evocati poco in questi giorni, ma che riappaiono periodicamente come punti caldi sul cammino delle Chiese europee e non solo europee. Penso in generale agli approfondimenti e agli sviluppi dell’ecclesiologia di comunione del Vaticano II. Penso alla carenza in qualche luogo già drammatica di ministri ordinati e alla crescente difficoltà per un vescovo di provvedere alla cura d’anime nel suo territorio con sufficiente numero di ministri del Vangelo e dell’Eucarestia (IL 14). Penso ad alcuni temi riguardanti la posizione della donna nella società e nella Chiesa (IL 48), la partecipazione dei laici ad alcune responsabilità ministeriali (IL 49), la sessualità, la disciplina del matrimonio, la prassi penitenziale, i rapporti con le Chiese sorelle dell’Ortodossia e più in generale il bisogno di ravvivare la speranza ecumenica (IL 60-61), penso al rapporto tra democrazia e valori e tra leggi civili e legge morale. Non pochi di questi temi sono già emersi in Sinodi precedenti, sia generali che speciali, ed è importante trovare luoghi e strumenti adatti per un loro attento esame. Non sono certamente strumenti validi per questo né le indagini sociologiche né le raccolte di firme. Né gruppi di pressione. Ma forse neppure un Sinodo potrebbe essere sufficiente. Alcuni di questi nodi necessitano probabilmente di uno strumento collegiale più universale e autorevole, dove essi possano essere affrontati con libertà, nel pieno esercizio della collegialità episcopale, in ascolto dello Spirito e guardando al bene comune della Chiesa e dell’umanità intera. Siano cioè indotti a interrogarci se, quaranta anni dopo l’indizione del Vaticano II, non stia a poco a poco maturando, per il prossimo decennio, la coscienza dell’utilità e quasi della necessità di un confronto collegiale e autorevole tra tutti i vescovi su alcuni temi nodali emersi in questo quarantennio. V’è in più la sensazione che sarebbe bello e utile per i vescovi di oggi e di domani, in una Chiesa ormai sempre più diversificata nei suoi linguaggi, ripetere quell’esperienza di comunione, di collegialità e di Spirito Santo che i loro predecessori hanno compiuto nel Vaticano II e che ormai non è più memori viva se non per pochi testimoni. Preghiamo il Signore, per intercessione di Maria che era con gli apostoli nel Cenacolo, perché ci illumini per discernere se, come e quando i nostri sogni possono diventare realtà.
Card. Carlo Maria Martini
Sinodo dei vescovi per l’Europa, 7 ottobre 1999.
Dichiarazione DJ è un documento importante per la serietà e il rigore con cui affronta il problema del pluralismo religioso e per il ripetuto invito a continuare la ricerca sulle ragioni del dialogo e l’interpretazione del pluralismo. Il richiamo al compito dei teologi risuona diverse volte nel documento.
Come quando ammette che esistono “diverse spiegazioni teologiche su questi argomenti” (n. 18) e sollecita i teologi a continuare la riflessione per risolvere le difficoltà esistenti. Altrove si dice che “la teologia sta cercando di approfondire” i modi con cui la grazia giunge ai non cristiani e si afferma che “tale lavoro teologico va incoraggiato, perché è senza dubbio utile alla crescita della comprensione dei disegni salvifici di Dio e delle vie della loro realizzazione” (n. 21). Tale invito deve essere interpretato come l’ammissione di problemi irrisolti, ma anche come la convinzione di possibili acquisizioni attraverso la riflessione sull’esperienza del dialogo. Il tono tuttavia e i limiti dottrinali imposti alla riflessione di fatto hanno frenato la libera discussione teologica. Forse è stato opportuno questo tempo di riflessione per preparare con cura un passo avanti.

Con quali premesse?
Il problema per i cristiani sorge come conflitto tra la convinzione dell’unicità salvifica di Gesù Cristo cui corrisponde la mediazione necessaria della Chiesa, e dall’altra parte la nuova sensibilità, maturata dal confronto con le diverse culture e dal dialogo con le altre religioni.
L’unicità salvifica di Gesù è presentata in chiare formule bibliche: “In nessun altro c’è salvezza. Non vi è infatti, altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati” (At.4,12).
A questa dottrina corrisponde la convinzione della mediazione necessaria della Chiesa per la salvezza di tutti gli uomini e della insignificanza salvifica delle altre religioni. Questa convinzione è stata condensata nell’assioma tradizionale: “Fuori della Chiesa non c’è salvezza” e nella immagine della unica barca di Pietro nel mare procelloso del mondo.
Il Concilio Vaticano II (1962-1965) ha avvertito il cambiamento in corso e ha posto le premesse per il cammino ulteriore. La Dichiarazione conciliare Nostra aetate ha aperto il cammino teologico del dialogo della Chiesa cattolica con le religioni. A venti anni dal Concilio, l’incontro del 27 ottobre 1986 tra rappresentanti delle diverse religioni del mondo, convocati dal Papa ad Assisi per una preghiera comune, è stato l’evento che ha espresso plasticamente il processo che tutti i credenti stanno ora vivendo.
Ma per i cristiani queste esperienze non sono indolori, perché scardinano alcuni principi consolidati e mettono in crisi atteggiamenti inveterati. Per questo la teologia delle religioni è stata rivoluzionata e le posizioni hanno subito rapidi cambiamenti. Il dialogo con le religioni ha richiesto una nuova analisi della pretesa veritativa, unica e assoluta, che il cristianesimo avanzava nei confronti delle altre religioni.

La strada del dialogo
Nell’ambito cattolico la necessità del dialogo, come componente essenziale della missione, è oggi affermata chiaramente dal Magistero, ad esempio, nell’enciclica Redemptoris missio del 7 dicembre 1990 e nel documento Dialogo e annuncio. Il fattore che rende difficile l’equilibrio fra le due dimensioni della missione (dialogo e annuncio) è la concezione della Chiesa. Essa viene considerata “serva del regno”, ma poi è presentata anche come un fine della missione.
Anche nella Enciclica Fides et ratio la riflessione dedicata all’incontro del cristianesimo con i mondi culturali e religiosi del lontano Oriente, in particolare dell’India, indica un principio generale molto chiaro: “Il fatto che la missione evangelizzatrice abbia incontrato sulla sua strada per prima la filosofia greca, non costituisce indicazione in alcun modo preclusiva per altri approcci”. Nella Dichiarazione Dominus Jesus si ripete che il dialogo interreligioso “fa parte della missione evangelizzatrice della Chiesa” e che esso implica “un rapporto di conoscenza reciproca e di mutuo arricchimento, nell’obbedienza alla verità e nel rispetto della libertà” (n. 2). Il card. J. Ratzinger parla dello stesso annunzio del Vangelo “come processo dialogico”.

Diverse opinioni…
La discussione nel mondo cristiano sul valore delle religioni negli ultimi decenni è stata molto accesa. Le molte opinioni possono essere ricondotte a quattro. Le due estreme oggi sono generalmente rifiutate: l’esclusivismo e il relativismo. Il primo sostiene che solo i cattolici (o i cristiani) si salvano Fiamma della speranza. perché riconoscono Cristo, l’unico salvatore. I relativisti (che spesso si chiamano anche pluralisti), ritengono che tutte le religioni in ordine alla salvezza si equivalgono.
Restano due altre opinioni: l’inclusivismo e il pluralismo convergente.
Gli inclusivisti sono attualmente i più numerosi in ambito cristiano e si presentano in forme variegate. Una prima forma sottolinea il compimento dei valori religiosi realizzata in Cristo e quindi presente nella Chiesa, per cui tutto ciò che in frammenti si trova altrove, si crede che debba essere già stato vissuto e presentato da Cristo in pienezza e possa essere rinvenuto nella Chiesa in modo compiuto (inclusivismo costitutivo). Una seconda modalità di inclusivismo presenta Cristo e la Chiesa come la norma definitiva per giudicare le altre forme religiose, per cui chi segue Cristo o appartiene alla Chiesa possiede il metro di valutazione per cogliere il bene presente nelle altre religioni e per individuarvi insufficienze e mali (inclusivismo normativo).
Una terza modalità di inclusivismo parla di una presenza attiva del Cristo glorioso o del Cristo cosmico nelle esperienze religiose dell’umanità, per cui tutte le ricchezze, che si possono trovare nelle esperienze religiose dell’umanità sono ricondotte all’azione di Cristo e del suo Spirito (inclusivismo trascendente).
I pluralisti convergenti sostengono che unica è la Parola rivelatrice e salvifica di Dio, ma molti sono i mediatori storici della salvezza e molte quindi sono le religioni vere, anche se fra di esse vi sono notevoli differenze.

Le strade della salvezza
La distinzione tra la Chiesa e il regno ha reso possibile superare l’esclusivismo ecclesiologico, perché ha fatto cogliere la presenza dello Spirito di Dio in azione ovunque. Allo stesso modo la distinzione tra Gesù, l’uomo sacramento di Dio, e il Verbo, Parola eterna del Padre, consente di cogliere gli altri spazi della Parola eterna e di superare l’esclusivismo salvifico del Vangelo cristiano. Conseguentemente viene affermata con chiarezza la possibile funzione salvifica delle religioni e la loro convergenza verso una pienezza non ancora realizzata da nessuna di esse, neppure dal cristianesimo. Il rapporto stabilito dalle religioni con l’eterna Parola di Dio è diverso, e varia è, quindi, la loro funzione rivelatrice e salvifica, ma tutte possono avere un ruolo specifico nella storia della salvezza.
La Dichiarazione DJ riprende la stessa dottrina quando ammette che le altre religioni “contengono e offrono elementi di religiosità che provengono da Dio” (n. 21). Per cui “non si deve escludere l’opera di Cristo e dello Spirito fuori dei confini visibili della Chiesa” (n. 19). La ragione per cui: “I seguaci della altre religioni possono ricevere la grazia divina” (n. 22) viene indicata nel fatto che “l’unica mediazione del Redentore non esclude, ma suscita nelle creature una varia cooperazione, che è partecipazione dell’unica fonte” (LG 62). Questa affermazione, che nel Vaticano II riguardava il ruolo di Maria nella storia, viene qui riferita alla “mediazione

La teologia oggi, meditando sulla presenza di altre esperienze religiose e sul loro significato nel piano salvifico di Dio, è invitata a esplorare se e come anche figure ed elementi positivi di altre religioni rientrino nel piano divino di salvezza.
Dominus Jesus, n.14.
partecipata” che le religioni esercitano in ordine alla salvezza. Si sostiene, inoltre, che “il contenuto di questa mediazione partecipata è da approfondire” (n. 14), per precisare “se e come anche figure ed elementi di altre religioni rientrino nel piano divino di salvezza” (n. 14).

Volgere lo sguardo altrove
Per i pluralisti convergenti il punto di partenza del dialogo e della riflessione è l’assolutezza dell’azione salvifica di Cristo colta nell’esperienza di fede ed espressa nelle formule tradizionali. Ma la spinta che guida a fare un passo ulteriore nella comprensione del mistero salvifico è la necessità di vivere e di annunciare in modo efficace, nel contesto pluralista della società attuale, la salvezza universale offerta da Gesù. L’orizzonte di riferimento è riassunto nella affermazione che la Parola di Dio ci conduce sempre oltre le nostre parole e che perciò la rivelazione di Dio non può essere identificata con i modelli le formule con cui gli uomini l’hanno espressa lungo i secoli.
Siccome però il Nome di Dio si esprime sempre e solo storicamente, per chi crede in Cristo come rivelatore di Dio e salvatore, il nome di Gesù diventa la cifra storica per individuare altri nomi umani, un criterio assoluto per interpretare le altre traduzioni umane del Nome ineffabile. Gesù stesso conduce a volgere lo sguardo altrove per cogliere i segni della presenza di Dio fino a ora trascurati e ascoltare gli echi della Parola eterna, non ancora percepiti. Una volta scoperto il Nome ineffabile di Dio attraverso il nome di Gesù, è opportuno chiedersi se sia doveroso, per noi, guidati dalla luce della stessa tradizione cristiana, scoprire altri nomi che esprimano l’azione salvifica di Dio e riflettano l’eco del Suo nome. La diversità di queste epifanie salvifiche appare esclusivamente dai frutti di vita, dalle forme di umanità che esse suscitano nella storia umana. Sono gli stessi contenuti della fede in Cristo, quindi, a guidare verso lidi nuovi.
Secondo questa prospettiva tutte le religioni, compreso il cristianesimo, sono in ascolto della Parola eterna, che, diversamente e secondo varie modalità, cerca di esprimersi nelle culture umane. Tutte perciò camminano verso una compiutezza, che dal loro interno, attraverso il dialogo si attua nella storia. Per ogni credente la sua religione è assoluta in quanto consente una esperienza, che attinge realmente la Parola eterna di Dio. Questa assolutezza tuttavia non è esclusiva perché non impedisce analoghe esperienze salvifiche assolute. In questo senso si può parlare di una “unicità relazione” di Cristo o “assolutezza relazionale” del cristianesimo, senza per questo cadere nel relativismo. Per natura sua ogni esperienza religiosa deve saper riconoscere anche l’assolutezza di possibili altre forme religiose proprio per il termine trascendente che il credente attinge. L’assolutezza riguarda il termine reale dell’esperienza religiosa, la relazionalità si riferisce alle forme storiche della sua manifestazione.

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