Esecuzione sospesa
Curt Harris, afroamericano, di una famiglia poverissima con nove figli, un padre alcolizzato che lo picchiava continuamente, processato e condannato a morte da una giuria di soli bianchi per un omicidio commesso a 17 anni, fu “giustiziato” il 1° luglio del 1993, senza che si fosse riusciti a riaprire il caso dopo che accertamenti medici in carcere avevano appurato danni organici al cervello causati dalle violenze subite. Robert Carter, anche lui texano, cresciuto in situazione di indigenza estrema, con una madre e un patrigno violenti, a 10 anni era stato colpito in testa con una mazza da baseball che si era rotta nell’impatto! Arrestato a 17 anni, interrogato in
Convenzione per i diritti del fanciullo (art. 37.a)
Convenzione internazionale sui diritti civili e politici (ICCPR) (art. 6.5)
Convenzione di Ginevra relativa alla salvaguardia dei civili in tempo di guerra (art. 68)
Salvaguardia per la protezione di coloro che rischiano la pena di morte (Risoluzione ONU)
Convenzione americana sui diritti umani (art. 4.5)
Il record USA
Sono state 22 le condanne a morte di persone minorenni al momento del crimine eseguite negli Stati Uniti dal 1976, anno della reintroduzione della pena capitale: il numero più alto al mondo e circa due terzi del totale. E sono tutte storie di miseria e degrado sociale, con un’infanzia segnata da violenze e abusi sessuali, e di base sempre l’appartenenza a una minoranza non bianca – 8 su 9, secondo i dati ufficiali. Moltissimi i casi di delitti commessi sotto l’effetto dell’alcool o di droghe e di accertati o sospetti deficit mentali. Anche gli iter giudiziari sono tutti simili: processi non pienamente conformi agli standard internazionali, condotti in un clima discriminatorio e senza garanzia di equità, con difensori d’ufficio inetti, disinformati, disinteressati al caso, confessioni estorte con l’intimidazione, testimoni unici, spesso complici che con la denuncia salvano se stessi, prove d’accusa dubbie o inesistenti, attenuanti e elementi a favore non considerati. Nel caso di minorenni, è quasi inevitabile incappare nei “buchi neri” del sistema giudiziario americano, già statisticamente molto presenti in genere nei processi che si concludono con condanne capitali. “La mia domanda è ‘perché?’.
Stati in cui era, almeno formalmente,
ammessa: 19
Condanne eseguite dal 1976 negli USA: 22
Detenuti nel braccio della morte: 75
Paesi in cui sono state eseguite condanne
dal 1985: 9
Condanne eseguite nel mondo dal 1985: 35
Infatti, se Paula Cooper, quindicenne al momento del delitto, grazie alla mobilitazione internazionale – un milione di firme – e del Papa, si vide commutata in ergastolo la pena, a nulla sono serviti gli appelli di Jimmy Carter e del presidente dell’ONU Pérez de Cuellar per James Terry Roach, o quelli di 6 premi Nobel e del mondo della cultura per Gary Graham, la cui colpevolezza fu messa in dubbio fino alla fine. O quelli della comunità di suore cui apparteneva la vittima, e dello stesso Giovanni Paolo II, per Johnny Garrett, dichiarato da tre perizie mediche psicotico cronico, con gravi danni cerebrali per le percosse subite da bambino. E le pressioni e gli appelli che accompagnano ogni caso.
Ora basta!
Ma ora, dal 1° marzo, non è più possibile negli Stati Uniti condannare a morte persone che erano minorenni al momento del crimine: una sentenza di incostituzionalità emessa dalla Corte Suprema con valore immediato e retroattivo salva la vita a 72 detenuti già in attesa nel braccio della morte e cancella uno dei punti più aberranti del sistema giudiziario americano.
È stata, accanto alla battaglia sui principi, anche l’evidente, tragica ingiustizia interna del sistema la leva che ha consentito, negli anni, al lavoro incessante di associazioni e gruppi abolizionisti di far breccia nel muro del consenso in un Paese che, unico al mondo insieme alla Somalia, si è rifiutato di ratificare la Convenzione internazionale per i diritti del fanciullo. La possibilità di condannare a morte un individuo che era minorenne al momento del crimine contravviene a principi sanciti in più sedi sul piano internazionale, oltre che a un sentire diffuso: non solo, infatti, non tiene conto della ridotta capacità di discernimento del minore e della responsabilità sociale che si dovrebbe esercitare su di lui, ma nega anche la funzione redentiva della pena, che con una personalità in formazione ha maggiori possibilità di arrivare a buon esito. Eppure, in un Paese che si pone nel mondo come portatore del modello di democrazia, questo approccio è tutt’altro che scontato. Il voto stesso della Corte Suprema, è incerto fino
1986: incostituzionalità
1989: di nuovo ammessa
2002: incostituzionalità
Pena di morte per i minori al momento del reato:
1988: incostituzionalità per sedicenni o minori
2005: incostituzionalità
“Una vittoria eccezionale costruita nel tempo, attraverso anni e anni di lavoro meticoloso e di pressione incessante da parte dei movimenti abolizionisti”, definisce infatti la sentenza Roberta Ajello, del Coordinamento pena di morte di Amnesty International Italia, secondo la quale il fattore determinante è stato senza dubbio “il crescente dissenso da parte degli americani. Nell’assumere la decisione di qualche giorno fa, la Corte Suprema non ha potuto evitare di tenere in gran conto, infatti, le tendenze nazionali e internazionali, le prove scientifiche e i continui appelli provenienti da organizzazioni religiose, associazioni che si occupano della difesa dei diritti umani, della tutela dei diritti dei minori e di questioni legali. Si tratta, quindi, di un successo ottenuto grazie all’opinione pubblica statunitense e internazionale che lascia intravedere uno spiraglio verso nuovi traguardi difficili da raggiungere ma certamente, anche alla luce di quanto accaduto, non impossibili”.
Riparte la speranza
È davvero una forte spinta a continuare la mobilitazione e un segnale di speranza in tempi molto bui per i diritti umani. Intanto, per quei Paesi che negli ultimi anni, pur non riconoscendone formalmente la legittimità, hanno praticato, la pena di morte per i minori (almeno 35 esecuzioni dal 1990) – Pakistan, Arabia Saudita, Yemen, Iran, Repubblica Democratica del Congo, Nigeria, Cina – e che, è auspicabile, sulla scia degli Stati Uniti tenderanno a limitare se non eliminare questa prassi. Ma soprattutto per gli Stati Uniti stessi, dove la drammatica caduta delle garanzie giuridiche dopo l’11 settembre è venuta a inserirsi in un quadro di per sé già molto preoccupante. Dalle modalità degli arresti e dei fermi alle condizioni della detenzione, con maltrattamenti e costrizioni fisiche anche brutali e compressione dei diritti di base all’ordine del giorno, allo svolgimento dei processi, spesso al di sotto degli standard minimi internazionali di garanzie per la difesa e inficiati, nel caso di imputati non bianchi, da un clima apertamente razzista, tutti gli ambiti del sistema giudiziario statunitense presentano falle di estrema gravità. Nella visione di Bush, nelle condizioni di emergenza e di tensione continua che caratterizzano questa fase, tutto è lecito nel nome della “sicurezza”: anche gli arrestati “desaparecidos”, anche Guantanamo, anche, nonostante la condanna di facciata, Abu Ghraib. Il risultato elettorale ha avallato di fatto questa linea e farebbe pensare a un’opinione pubblica intimamente allineata. Forse, invece, la Corte ha colto qualche segnale diverso. Forse, quello che la Corte ha registrato è una breccia nel muro che ha sempre protetto l’approccio repressivo alle problematiche sociali. Forse anche il prolungarsi della guerra e del clima pesante che l’accompagna sta provocando qualche reazione nell’opinione pubblica americana e potrebbe aprirsi la strada se non per una nuova consapevolezza, almeno per qualche domanda.