Migrazione flessibile
Facciamo un’ipotesi. Oggi la politica non si sente più responsabile dei fenomeni sociali che sfuggono alla sfera dell’economico. Un banco di prova privilegiato per verificare la nostra ipotesi è la condizione dei migranti. Il migrante rappresenta il volto ambivalente del processo di globalizzazione. Una cosa è “globalizzare” le merci e i capitali, un’altra gli esseri umani.
Le spinte politiche verso l’apertura delle frontiere al fine di liberalizzare e deregolamentare gli scambi mercantili e finanziari cambiano di segno quando si tratta di gestire il fenomeno delle migrazioni. Negli ultimi dieci anni non
Saskia Sassen, Globalizzati e scontenti, Il Saggiatore, Milano 2002.
Espulsione o attrazione?
Questo perché non solo la politica non è in grado di operare un’assunzione di responsabilità rispetto ai fenomeni migratori, ma politica ed economia insieme non riescono a spingersi oltre la demagogia neo-conservatrice emergente nell’analisi delle cause. Si fatica a riconoscere che la transnazionalizzazione dell’economia, insieme alle trasformazioni strutturali del mercato del lavoro (soprattutto nelle aree urbane, che rappresentano le destinazioni preferenziali di immigrazione) giochino un qualche ruolo nello spiegare dimensioni e composizione dei flussi migratori. Infatti le analisi comunemente avanzate rispetto al fenomeno migratorio puntano il dito prevalentemente sui fattori espulsivi che generano i flussi migratori (la povertà, la guerra, l’instabilità politica dei Paesi di origine) piuttosto che sui ben più significativi fattori attrattivi dei Paesi di destinazione. Tra questi fattori il grado di informalità (o lavoro nero) e il basso livello qualitativo dei posti di lavoro prodotti dall’insieme dell’economia assumono
particolare rilievo. Non si spiegherebbe altrimenti come mai l’Italia, Paese con un tasso di disoccupazione tra i più alti in Europa, sia diventata una meta appetibile per l’immigrazione regolare e irregolare. D’altro canto anche lo stereotipo del migrante come disperato in fuga per la sopravvivenza è smentito dai fatti. Come si legge in un recentissimo rapporto del Naga (Abitare la città invisibile, Marzo 2005), associazione milanese che da anni si occupa di assistenza sanitaria per i migranti senza permesso di soggiorno, la maggior parte degli stranieri che raggiungono il nostro territorio sono giovani istruiti e dotati di grandi capacità di adattamento che cercano di migliorare la propria condizione, sulla spinta anche di desideri e bisogni individuali.
Migrazione e flessibilità
Nell’incontro tra queste persone e il nostro sistema legislativo (dalla legge Turco-Napolitano alle aberrazioni della legge Bossi-Fini) si produce un apparente, profondo paradosso. Da una parte i nuovi assetti produttivi alimentano una domanda di lavoro sempre più flessibile e sempre più adattabile alle esigenze del mercato, con una crescita occupazionale nei settori che richiedono basse qualifiche e bassi salari, d’altra parte il sistema giuridico produce la figura del migrante clandestino (colui che non ha mai posseduto un permesso di soggiorno) o irregolare (colui che dopo esser stato “regolare” è ricaduto, per una infinita serie di cause possibili, nella condizione di sans papiers) ossia due figure emblematicamente “flessibili”, che negano qualunque condizione di cittadinanza.
[…] È complesso, invece, accertare la quantità della presenza irregolare: le stime vanno dai 200.000 dell’ISMU ai 600.000 dei sindacati e agli 800.000 dell’Eurispes.
[…] Nel 2004, tra respingimenti ed espulsioni, sono state coinvolte 105.739 persone. Si era trattato di quasi 150.000 nel 2003 e di 130.000 in ciascuno dei due anni precedenti, ma non si può concludere che le sacche di irregolarità siano andate diminuendo: la regolarizzazione del 2002, che con 704mila domande presentate è andata ben al di là delle previsioni, induce ad essere prudenti. È difficile inoltre stimare quanti, rispetto alle persone respinte, siano entrati in maniera irregolare: sarebbe riduttivo, infatti, limitarsi agli sbarchi, che sono la parte più visibile e meno cospicua di questi flussi.
Dal XIV Rapporto sull’Immigrazione – dossier statistico a cura di Caritas Italia e Migrantes.
Prima un contratto
In altre parole, il sistema giuridico subordina all’attivazione di un contratto di natura privatistica (il contratto di lavoro che deve essere stipulato prima dell’arrivo in Italia) la possibilità di godere di un insieme di diritti-doveri elementari.
Ma il punto più basso dell’intero sistema legislativo è incarnato dall’istituzione dei Centri di Permanenza Temporanei (i cosiddetti CPT), non-luoghi in cui vengono confinati gli immigrati in attesa di rimpatrio e, spesso, i richiedenti asilo (l’Italia è l’unico Paese europeo che non si è ancora dotato di una legislazione organica sull’asilo politico). I CPT, come testimoniato negli ultimi rapporti di Medici Senza Frontiere, di Amnesty International e di Psichiatria Democratica, si sono conquistati un record negativo rispetto alle lesioni dei diritti sociali e persino dei diritti umani: incarcerazione (perché gli “ospiti” dei CPT non possono abbandonarne la struttura) senza reato e senza giudizio, limiti gravi all’assistenza giuridica, condizioni sanitarie pessime fino all’uso improprio della terapia farmacologica (contenzione chimica) non a scopo curativo ma di controllo,
Fonte: Istat.
Nessuno incluso
Il clandestino o l’irregolare, quindi, non è portatore di alcun diritto di cittadinanza, è spesso oggetto di abusi, ma la sua prestazione lavorativa è ben accetta: infatti tre su quattro immigrati dichiarano di essere rimasti almeno una volta senza documenti e di aver comunque continuato a lavorare in nero. È per questo che le politiche volte a migliorare le condizioni e la stabilità di impiego nel mercato del lavoro sarebbero ben più efficaci di ogni politica repressiva rispetto all’immigrazione irregolare. Ma la scelta repressiva sembra essere preferita all’accoglienza nell’approccio alla questione dell’immigrazione proprio nel momento in cui questo fenomeno si fa quantitativamente più significativo: si è passati dai 300.000 immigrati stimati nel nostro Paese agli inizi degli anni ’80, agli oltre 2.600.000 del 2004.
L’incapacità della politica di formulare un ragionamento su una grave lacerazione del concetto di cittadinanza, rappresenta il segno della dismissione di un progetto politico universalistico, anche solo nell’enunciazione. L’inclusione non sembra più rientrare nell’agenda della politica, ma nemmeno tra i suoi desiderata.