ARMAMENTI

Fondi sminati

Le mine uccidono anche dopo le guerre. Toglierle è impegno di tutti. Anche del nostro Paese. Che anno dopo anno però riduce i soldi. Come emerge dalla relazione governativa sul Fondo per lo Sminamento Umanitario.


Simona Beltrami (Coordinatrice Campagna Italiana contro le mine)

Illidza, alla periferia di Sarajevo è un sobborgo diviso tra un’anima operaia e una vocazione turistica legata alle sorgenti che ne avevano fatto uno dei principali centri termali dell’impero asburgico. La guerra fratricida ha distrutto la fabbrica di automobili che dava lavoro a tutti e minato il parco intorno alle fonti, trasformando il paesaggio nell’ennesima terra di nessuno di cui la Bosnia è costellata. A dieci anni dalla fine del conflitto, poco a poco sta tornando alla vita e lungo le strade – ai margini dei terreni via via restituiti all’agricoltura, all’industria e al tempo libero – si vedono cartelloni che annunciano la bonifica, realizzata dal programma per lo sviluppo delle Nazioni unite (UNDP) con il contributo finanziario del governo italiano.

Convivere con la paura
Ecco quello che si cela dietro le cifre e il linguaggio burocratico della relazione del ministero degli Affari Esteri sull’attuazione della legge istitutiva del Fondo per lo Sminamento Umanitario (l. 58/2001), presentata al Parlamento lo scorso marzo: campi, strade, infrastrutture strappate alla morsa delle mine grazie al lavoro meticoloso di centinaia di uomini e donne impegnati nel difficile compito della bonifica; programmi e materiali di informazione per insegnare ai bambini, ma anche agli adulti, a convivere in sicurezza con il pericolo; protesi, percorsi di riabilitazione; Campagne per far cessare una volta per tutte l’uso di mine da parte di chi ancora si ostina a farlo.
La relazione contiene già nelle prime righe un dato che non può non suscitare allarme: le somme messe a disposizione per tutte queste attività sono in continuo calo. Non solo la dotazione del Fondo (originariamente 29 miliardi di lire per il triennio 2001-2003) è stata praticamente dimezzata per il triennio Il conflitto ne Darfur disegnato dai bambini: Abd al-Rahman, 13 anni. successivo (poco più di 7,5 milioni di euro stanziati nella Finanziaria 2004), ma è stata ulteriormente erosa nella finanziaria 2005 (da 2,58 a 2,4 milioni di euro), e sono previsti ulteriori tagli per il 2006.

Destinatari fortunati
Nell’ultimo anno, sono stati finanziati programmi in Africa (Angola, il Paese che ha ricevuto il contributo più consistente, con quasi 700.000 euro, e Sudan, 200.000); nei Balcani (Bosnia, 500.000 e Croazia, 250.000); nell’Asia centrale (Azerbaigian, 150.000 e Tagichistan, 60.000); in Medio Oriente (Yemen, 150.000) e in America Centrale (100.000). Piccole somme sono state erogate per l’acquisto di metal detectors in Afghanistan e in Eritrea e altri contributi sono stati destinati ad attività di natura politica e di sostegno all’attuazione della convenzione di Ottawa per la messa al bando delle mine, entrata in vigore il 1° marzo 1999.
In precedenza, la lista dei beneficiari era più estesa e comprendeva, tra gli altri, Ciad, Etiopia, Laos, Mozambico, Russia (per l’assistenza alle vittime di mine in Cecenia) e Sri Lanka, ma è inevitabile che il progressivo assottigliamento delle risorse disponibili comporti decisioni difficili. Decisioni di cui è facile immaginare le conseguenze non solo sulla vita di chi abita in territori minati, ma anche sulla realistica possibilità di attuare gli obiettivi posti dalla Convenzione di Ottawa, tra cui quello di completare la bonifica dei Paesi minati entro 10 anni dalla loro adesione. Per alcuni dei Paesi più gravemente colpiti, questa scadenza si sta rapidamente avvicinando: nel 2009 per Bosnia e Mozambico e nel 2010 per la Cambogia. In tutti questi casi, malgrado gli sforzi profusi da anni nei programmi di sminamento, si tratta di un traguardo molto difficile da raggiungere senza un deciso sostegno da parte della comunità internazionale. Per quanto riguarda la Bosnia, si sta progressivamente sostituendo l’obiettivo di un Paese “libero dalle mine” (come prescritto dalla Convenzione di Ottawa) con quello di un Paese “sicuro”, dove quindi rimarrebbero dei campi minati recintati, per quanto segnalati, in zone di scarso passaggio. Una pericolosa corsa al ribasso che rischia di compromettere l’aspirazione, e il diritto fondamentale, di milioni di persone, a vivere finalmente libere dal terrore quotidiano delle mine.

Un fondo per lo sminamento
Per quanto riguarda l’Italia, va ricordato che l’istituzione per legge di un fondo specificamente dedicato a finanziare attività di bonifica umanitaria, prevenzione e assistenza alle vittime ha costituito una delle pietre miliari nel percorso di “ravvedimento” del nostro Paese, un tempo ai primi posti nella classifica mondiale dei produttori di mine antipersona. Un percorso partito dalla promulgazione di una legge che proibisce uso, produzione, trasferimenti e stoccaggio di questi ordigni, passato per la ratifica del trattato di Ottawa per la loro messa al bando, e culminato nella distruzione di più di 7 milioni di mine conservate negli arsenali delle forze armate italiane. In questo contesto, la creazione di uno strumento concreto di sostegno alle attività finalizzate a liberare il mondo dagli effetti delle mine è un giusto riconoscimento della responsabilità morale per il contributo italiano alla proliferazione dei congegni mortali che infestano Paesi come l’Iraq, l’Angola, il Sudan e molti altri.
Questa responsabilità non si cancella, né si diluisce con il passare del tempo: rimarrà fino al momento in cui l’ultima Valmara 69 (uno dei nostri “prodotti di punta”, venduto in milioni di esemplari a Saddam Hussein al tempo della guerra contro l’Iran) o altra mina italiana non sarà rimossa dal terreno; rimarrà finché l’ultima vittima non avrà più bisogno di protesi o di mezzi per ricostruirsi una vita in dignità.

Con l’aiuto di tutti
Purtroppo, quel momento è ancora lontano. I dati contenuti nell’ultima edizione del Landmine Monitor Report, il rapporto annuale sulle mine, Taha, 13 o 14 anni. pubblicato nel novembre 2004, parlano ancora di più di 80 Paesi colpiti dalle mine (numero che aumenta ad almeno 90 se si considera anche la contaminazione dovuta ad altri residuati bellici esplosivi con effetti assimilabili a quelli delle mine, tra cui in particolare le munizioni cluster); almeno 15.000 le persone ferite, mutilate o uccise ogni anno; quasi 400.000 quelle che, sopravvissute al tragico incontro con una mina, devono affrontare il resto della loro vita in condizioni di menomazione fisica, trauma psicologico, esclusione sociale e marginalizzazione economica. Milioni di persone al mondo sono obbligate ogni giorno alla difficile scelta di dover affrontare un pericolo di cui sono drammaticamente coscienti per poter svolgere le attività necessarie alla loro sopravvivenza: coltivare i campi, attingere l’acqua dai pozzi, raccogliere la legna o sorvegliare il bestiame; interi villaggi sono letteralmente ostaggio delle mine; i bambini non possono giocare liberamente; e raggiungere la scuola, l’ospedale, il mercato può essere un viaggio senza ritorno.
Di fronte a tutto questo, un Paese come l’Italia non può e non deve abbassare la sua soglia di attenzione e condivisione dell’impegno comune contro le mine. Innanzitutto, sarebbe uno schiaffo in faccia a quanti soffrono la situazione di “conflitto permanente” creata dalla presenza di questi ordigni anche a decenni di distanza dalla firma degli accordi di pace. Ma non solo: contraddice anche gli impegni assunti in sede internazionale. Meno di sei mesi fa, alla fine del novembre 2004, il sottosegretario agli Affari Esteri, senatore Alfredo Mantica, partecipava a Nairobi, in rappresentanza del nostro governo, alla prima conferenza di revisione della Convenzione di Ottawa. La conferenza, tenutasi nell’anno del quinto anniversario dell’entrata in vigore della Convenzione stessa, serviva come occasione per una valutazione dei risultati fin qui ottenuti, degli obiettivi ancora da conseguire, e dei mezzi necessari per farlo. Ne è scaturito un piano d’azione in 70 punti per la cui attuazione è necessario il contributo di tutti gli Stati, siano essi direttamente interessati o meno. L’Italia non ha scuse per tirarsi indietro.

Note

La Campagna Italiana contro le Mine continua la sua azione di pressione sul Parlamento per ottenere un adeguamento della cifra stanziata per il Fondo per lo Sminamento Umanitario.

Per saperne di più o firmare la petizione promossa dalla Campagna, visitate
http://www.campagnamine.org o contattate la Campagna allo 06-85800693,
coordinamento@campagnamine.org

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