LAVORO

Poveri precari

L’inclusione come condizione naturale. L’esclusione come eccezione. Così fino a qualche anno fa. Oggi tutto si è rovesciato. L’esclusione è condizione diffusa. Come la precarietà degli inclusi.
Cristina Tajani

Le trasformazioni del lavoro negli ultimi vent’anni hanno investito le prospettive e le aspettative di giovani e meno giovani. L’accesso e la permanenza nel mercato del lavoro dei giovani che oggi vi si affacciano, assume caratteristiche strutturalmente differenti rispetto a quelle che hanno vissuto i loro padri. Le condizioni di accesso, in particolare, sono segnate da un’estrema flessibilità in entrata, frutto delle riforme del mercato del lavoro dell’ultimo decennio (dal cosiddetto “pacchetto Treu”, che nel 1997 ha introdotto il lavoro interinale e altre forme di contratti a termine, alla recente Legge 30 che ha allargato l’area del lavoro “atipico” nel nostro sistema legislativo).
Ma la flessibilità occupazionale è un dato che tende a permanere e a modificare l’aspettativa occupazionale e di vita anche nelle fasi successive dell’esistenza. I processi di trasformazione e delocalizzazione delle imprese rendono instabile anche il lavoro formalmente a tempo indeterminato.

Precari di professione
In Italia i lavoratori cosiddetti “atipici” (somma di part-time, tempi determinati, interinali, parasubordinati) pesano per circa il 30% sugli occupati (dati IRES e ISTAT, 2002). La percentuale è più interessante se, invece di guardare agli stock si guardano i flussi in entrata nel mercato del lavoro. Nella provincia di Milano, per esempio, ma i dati non sono dissimili per le altre grandi città, il 67% delle nuove assunzioni viene fatto attraverso forme di lavoro precario (dato Osservatorio Mercato del Lavoro della Provincia di Milano). Negli ultimi mesi del 2004, sempre nell’area metropolitana milanese, si è assistito a un’esplosione di contratti a termine brevissimi (inferiori ai tre giorni).
A questo dato si aggiunge che le ristrutturazioni dei territori, attraverso la speculazione immobiliare, la dismissione delle aree industriali e gli attacchi all’integrità dell’ambiente, introducono un ulteriore elemento nella forme e dimensioni della precarietà che si abbattono sui soggetti che sono entrati nel recente passato e entreranno nel prossimo futuro nel mondo del lavoro.
La precarietà, che investe soprattutto le giovani generazioni, dunque, non è solo un dato registrabile sul mercato del lavoro, ma ha molto a che fare con le condizioni di vita urbana (alloggi, accesso a servizi essenziali, trasporti…) e con il godimento di effettivi diritti di cittadinanza.
È evidente che questo dato segna delle conseguenze non solo rispetto all’esigibilità dei diritti dei lavoratori così come codificati, ma implica delle trasformazioni di percezione e di prospettiva di carattere culturale e antropologico. La stessa idea di lavoro nelle nostre società ha cambiato volto e codificazione, così come una serie di sincronismi sociali e consuetudini

Tra gli imprenditori che conoscono la legge gli istituti più utilizzati sono il part-time (19%) e il contratto di apprendistato (14%). Seguono il lavoro occasionale e accessorio (9%) e il lavoro a progetto (7%). Compare anche il lavoro a coppia (il cosiddetto job-shering) ma in una percentuale molto contenuta (0,4%). Le imprese del Nord utilizzano più delle altre il lavoro a progetto e il lavoro occasionale, mentre il contratto di apprendistato è maggiormente apprezzato dalle imprese del Centro.
Dal Rapporto Isfol 2004 sull’applicazione della cosiddetta “Legge 30”.
collettive tarate su tempi e modi del lavoro non più prevalenti. Succede così che il lavoro, nel senso della condizione di occupazione, non sia più garanzia per gli individui della capacità di corrispondere ai bisogni presenti né tantomeno a quelli futuri. Il lavoro, cioè, non è necessariamente un mezzo di inclusione sociale.

Nuovi poveri
In età pre-moderna, la collocazione della maggioranza della popolazione entro i confini dell’esclusione sociale e politica e della povertà materiale era un fatto accettato come “naturale”. La povertà stessa era un “fatto sociale naturale”. Il capitalismo occidentale del secondo dopoguerra ha, invece, mostrato il carattere tendenzialmente includente di un cero modello economico, conseguenza in parte delle esigenze di valorizzazione interne al processo di accumulazione economica (i produttori delle merci, cioè i lavoratori, dovevano potenzialmente essere i consumatori di quelle stesse merci in virtù di una limitata internazionalizzazione dei mercati) e in altra parte della spinta delle lotte dei lavoratori in direzione della piena cittadinanza politica ed economica. Oggi il problema della povertà materiale travalica le sacche di marginalità ed “eccedenza” sociale cui erano destinati i soggetti “non produttivi” e diventa un problema generale che coinvolge anche chi è pienamente inserito nel ciclo della produzione. Il modello è quello statunitense, in cui il 35% degli occupati (dato ONU di qualche anno fa) vive sotto la soglia di povertà (li chiamano working-poors…). Assistiamo, allora, alla definizione di una nuova geografia della centralità e della marginalità sociale che offre molti aspetti per un paragone con la pre-modernità. La tendenza alla polarizzazione dei redditi si è andata accentuando negli ultimi decenni insieme alla perdita del potere d’acquisto dei redditi da lavoro dipendente (inclusi quelli dei lavoratori formalmente autonomi, delle partite IVA, dei collaboratori e quant’altro) come confermano ormai tutti i dati (si vedano le tabelle allegate). La dicotomia tra inclusione ed esclusione non si dipana più solo tra un Nord e un Sud del mondo, ma all’interno degli stessi Paesi a capitalismo avanzato e nelle metropoli globali si possono tracciare i confini tra le aree di inclusione e quelle di esclusione sociale ed economica.

Piena cittadinanza
Tra queste ultime, ormai, si inseriscono pienamente le aree di precarizzazione del lavoro. È sempre più evidente che la precarietà oltre a essere un fattore di compressione verso il basso del costo del lavoro nell’immediato, a causa della discontinuità e dell’insicurezza dei redditi, diventa una promessa di povertà nel futuro: i giovani precari di oggi avranno un destino di pensionati poveri grazie a decontribuzione, buchi contributivi e fondi separati per i lavoratori autonomi (basti ricordare che un co.co.co riceverebbe, dopo 40 anni di contribuzione, una pensione pari circa al 35% dell’ultima retribuzione).
Nel 2002 un rapporto dell’IRES calcolava che tra i 2 milioni di co.co.co registrati all’INPS in Italia circa 1 milione e 300 mila lavoratori, dunque oltre la metà, si situa nelle fasce basse di reddito con un introito annuo di 7500 euro circa. Mentre il reddito medio lordo calcolato sui 2 milioni di lavoratori si aggira sugli 11.590 euro annui e le donne guadagnano, sempre in media, la metà degli uomini rimanendo i soggetti (insieme agli ultracinquantenni espulsi dal mercato del lavoro, i giovani in cerca di prima occupazione e i migranti) più esposti a rimanere ingabbiati nella “trappola della precarietà” (ovvero, sulla scorta dei dati, nella “trappola della povertà”).
La povertà e l’esclusione diventano così una condizione cui è impossibile emanciparsi una volta per tutte, mentre il godimento di effettivi diritti di cittadinanza è sempre più legato all’andamento del mercato e all’intermittenza dell’impiego. Eppure negli ultimi anni sono state proprio le giovani generazioni di precari o potenzialmente tali ad animare le manifestazioni, i momenti di partecipazione, di riflessione o di protesta sia sui luoghi di lavoro che in quelli della formazione (si pensi al gran fermento dei giovani ricercatori nelle università italiane mobilitati contro un modello di ricerca che fa della precarietà il suo perno). Tutti impegnati nel non semplice compito di indicare, a chi saprà ascoltare, nuovi modelli per una cittadinanza sempre più includente.

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