Quando la guerra entra in casa
Ma è possibile rompere questa spirale?
Per poter introdurre una riflessione chiara sul ruolo della mediazione familiare nei conflitti che conducono le coppie alla separazione, a titolo esemplificativo, prendiamo in esame un conflitto genitoriale, considerandone ad esempio le dinamiche relazionali.
Se fotografiamo il sistema familiare nella particolare fase della storia del nucleo che corrisponde all’evento-separazione e analizziamo i modi in cui si relazionano i membri della coppia coniugal-genitoriale, individueremo, con una certa facilità, che essi si connotano come liti, contese, accuse, giudizi, recriminazioni; in sostanza, il clima relazionale è quello tipico della guerra attraverso la messa in atto e il ricorso a logiche di potere.
Ancora, ciascuno dei componenti attrezza strategie “belliche”: dall’espulsione dell’altro al rifiuto del sostegno economico, alla coalizione con alcuni componenti il nucleo familiare nucleare o allargato, in particolare con i figli.
La contesa è finalizzata a trarre il maggior numero possibile di vantaggi che si traducono nell’affidamento dei figli, nell’assegnazione della casa coniugale, nella consistenza dell’assegno di mantenimento.
Per risultare vincenti, in questa contesa, è d’obbligo schierare una serie di “fatti” comprovanti la superiorità e dunque realizzare crediti che favoriscano la vittoria.
Ius dicit…
In questo clima relazionale, il sistema familiare interagisce col sistema giudiziario al quale rivolge non soltanto la richiesta formale di dichiarare la cessazione degli effetti civili del matrimonio, ma anche e soprattutto quella di valutare e giudicare adeguatezze e corrispondenti inadeguatezze genitoriali e, sulla base di tali giudizi e valutazioni, decretare la “superiorità” di un genitore rispetto all’altro, cosa che si traduce, fondamentalmente, nell’affidamento dei figli e, conseguentemente, nell’attribuzione della vittoria all’uno e della sconfitta all’altro.
Il sistema giudiziario è, nella sua natura, un sistema che esprime e deve esprimere potere: il potere decisionale. Ha l’ultima parola, “ius dicit”, come è stato ben notato, nella contesa; utilizza forme comunicative “forti”: provvedimenti, prescrizioni, disposizioni, sentenze.
Tali strumenti, come ogni altro mezzo comunicativo, hanno effetti pragmatici sul comportamento dei riceventi – i genitori in contesa – nel senso, cioè, che “dicono” all’uno e all’altro cosa fare, ed entrambi agiranno sulla base del significato delle comunicazioni ricevute.
In sintesi, essi ricevono, sul piano esplicito, precise formulazioni sui successivi comportamenti genitoriali; sul piano implicito, ricevono giudizi di maggiore o minore adeguatezza che nella maggior parte dei casi, non mitigano né risolvono il conflitto ma, al contrario, lo rafforzano, dal momento che confermano la logica del sistema familiare orientato a perseguire vittorie e sconfitte.
Abbiamo, per comodità espositiva, ipotizzato una situazione “artificiale”
Gandhi (La mia vita per la libertà).
Si tratta degli avvocati e degli operatori che, generalmente, si identificano con la figura del consulente tecnico d’ufficio.
Tra avvocati e consulenti
Il rapporto tra famiglia e sistema giudiziario è mediato dai consulenti, a volte perché esistono alcune difficoltà nell’atto decisorio rispetto ad aspetti che non possono essere decisi con gli strumenti del diritto; altre volte perché si vuol consolidare la decisione mediante strumenti “forti”, impegnando gli operatori a supportare la decisione.
Gli operatori si rapportano alla famiglia instaurando una relazione up-down, nel senso cioè che i primi sono collocati in una zona superiore dal momento che devono valutare, esprimere giudizi; la seconda è collocata in una zona di dipendenza, giacché ogni componente è sottoposto a esame attraverso strumentazioni sofisticate quali i colloqui clinici, le prove diagnostiche ecc.
Questa relazione esistente tra la famiglia in conflitto e gli operatori sociali spesso risponde, appunto, a una logica di tipo oppositivo-bellico; esprime valutazioni e giudizi, offrendo al sistema giudiziario un ulteriore supporto alla decisione, poggiando sulle stesse logiche di potere.
Quanto al sistema-avvocati, è evidente il suo ruolo di intermediario tra famiglia e tribunale in modo da definire i soggetti, i contenuti e le azioni della contesa: la parte e la controparte, il ricorrente e il resistente sono i termini linguistici per indicare i soggetti; attribuzione di colpe alla parte avversa, individuazione di atteggiamenti e comportamenti indesiderati rappresentano i contenuti; ricorsi, memorie, citazione di testi gli strumenti orientati a costituire forze contrapposte, veri e propri “eserciti” belligeranti.
È rintracciabile, così, una sorta di corrispondenza biunivoca tra tutti i sistemi che intervengono nella particolare vicenda della separazione. Questo conferma le dinamiche relazionali di tipo conflittuale che già erano presenti nella famiglia.
Per questo si può ben dire che l’apparato esistente attorno alla separazione non è funzionale alla risoluzione del conflitto, ma che, anzi, lo conferma.
La mediazione familiare
Cosa può accadere se introduciamo un elemento nuovo come la mediazione familiare?
La mediazione familiare è una “informazione” nuova che tende a produrre un cambiamento.
La sua capacità di produrre trasformazioni è connessa fondamentalmente con il fatto che inserisce elementi che si fondano su nuove logiche, producendo nuovi e diversi comportamenti.
Il primo elemento di segno diverso è rintracciabile nel fatto che nella mediazione non hanno cittadinanza l’uso e la gestione del potere.
Il mediatore non decide, non risolve, non giudica, non esprime valutazioni, non suggerisce soluzioni. Pertanto, se per esempio al sistema degli operatori sostituiamo quello della mediazione, di per sé questo intervento non è orientato a supportare la decisione del giudice; esso è organizzato a tirar fuori le risorse dei genitori/coniugi finalizzate alla ricerca e alla scoperta di soluzioni che attengono alle scelte fondamentali.
In questo senso è un sistema che rifiuta la delega decisionale e con essa ogni iniziativa tendente a individuare buoni e cattivi, adeguati e inadeguati e, conseguentemente, libera i genitori/coniugi da ogni dipendenza dal potere degli operatori.
Questo restituisce in modo sano le capacità decisionali in capo ai genitori e, con esse, la legittima responsabilità a tutelare l’interesse dei figli.
Ne consegue che la logica che opera sostituisce quella della contesa e si connota come collaborativa nel sostegno alla qualità essenziale dell’impegno genitoriale che è l’alleanza.
Non vi è, in sostanza, altro modo per risolvere il conflitto che quello di affidare alle stesse parti in contesa il compito di farlo.
Si tratta di una comunicazione che evoca atteggiamenti e comportamenti diversi da quelli messi in atto nel conflitto. Nulla più che si fondi sulla teoria dei giochi, ovvero del gioco “a somma zero”, per il quale ogni giocatore è contro l’altro e alla vincita dell’uno corrisponde la perdita dell’altro.
È sufficiente che in uno degli elementi di comunicazione/relazione tra le parti in conflitto si inneschi il cambiamento per produrre proficue modificazioni in tutti gli altri elementi componenti il sistema stesso. Un ruolo importante in tal senso potrebbero avere gli avvocati se supportassero i comportamenti genitoriali verso il riconoscimento dei bisogni dei figli, in vista della realizzazione di una sana bigenitorialità.
Questo nuovo sistema di risoluzione di un conflitto familiare invia ai genitori in contesa una comunicazione efficace, capace di orientarli alla ricerca di soluzioni concordate, in quanto rimesse alla loro responsabilità.
In conclusione, il ricorso alla mediazione familiare introduce un elemento di novità capace di orientare le relazioni familiari in una direzione risolutoria del conflitto.