Verso una nuova alleanza
Per un nuovo progetto comune. Per il primario interesse dei figli.
La mediazione familiare è certamente una nuova prospettiva, anche se non può definirsi più tanto nuova in quei Paesi extra europei dove è divenuta parte integrante dell’ordinamento giudiziario in materia di separazione e divorzio; è più recente nel nostro Paese, dove da qualche tempo, oltre a dare origine a un ampio dibattito, ha raccolto attorno a sé una variegata popolazione di sostenitori e di scettici.
È legittimo, quindi, chiedersi per quali ragioni essa sembri suscitare da un lato un accorato interesse, dall’altro una più o meno malcelata diffidenza, mobilitando, in entrambi i casi, l’attenzione di una serie di professionisti che operano nel settore del diritto e soprattutto in quello psicosociale.
Una delle ragioni a sostegno della positività della mediazione è da ricercarsi nella tesi, ormai ampiamente accolta nella cultura psicologica e in quella giuridica, per la quale la mediazione rappresenta uno strumento a tutela
Recuperando la comune radice dei termini tutore e tutela, potremmo dire che quest’ultima si sostanzia nel processo di accompagnamento dei genitori “divisi” oltre la “zona conflittuale” attraverso un percorso di mediazione.
Il termine percorso indica la scansione in tappe, ciascuna delle quali caratterizzata dalla presenza di elementi, che costituiscono la struttura portante dell’attività di mediazione familiare.
Responsabilmente
Una volta risolto il contratto coniugale, perché cessato il matrimonio, i genitori possono impegnarsi nella costruzione di un altro tipo di contratto, che ha come scopo lo sviluppo di una responsabilità genitoriale condivisa, sia sotto l’aspetto affettivo, sia sotto il profilo educativo. La condivisione è condizione necessaria per supportare una qualità fondamentale del ruolo di genitori, sia all’interno delle famiglie unite che in quelle “divise”, che è l’alleanza.
Un secondo elemento essenziale al percorso di mediazione è il consenso.
Quando i genitori prestano il proprio consenso al percorso di mediazione, si trovano nella situazione relazionale del con-sentire, ovvero di provare la sensazione di poter con-cordare, con-fidare, approvare, concedere, termini che, nell’etimo, rimandano tutti al consenso.
Essi decidono di affrontare un percorso, il più delle volte arduo e faticoso, che permette loro di sentirsi ancora genitori: i passi da compiere, per avvicinarsi a tale obiettivo, cominciano dalla possibilità che entrambi si riconoscano attraverso la reciproca sofferenza, esplorino progressivamente i loro bisogni, arrivino con gradualità a fidarsi l’uno dell’altro, aiutandosi nei compiti genitoriali.
Pertanto, come nel matrimonio, il contratto coniugale, fondato sul consenso,
La globalizzazione irrompe nell’organizzazione e nelle connessioni sociali, politiche, economiche. Con essa la flessibilità, il rischio, l’incertezza, l’obbligo della scelta, la “condanna” a definire il proprio futuro programmando pro e contro di tutto. La tecnica, mutatasi da strumento in ambiente che ci circonda e ci costituisce, ci vede ancora agire “in vista di scopi iscritti in un orizzonte di senso, con un bagaglio di idee e un corredo di sentimenti”, ma “non tende a uno scopo, non promuove senso, non apre scenari di salvezza, non redime, non svela verità” (Umberto Galimberti, 1999, Psiche e teche – L’uomo nell’età della tecnica).
Appare evidente che anche la famiglia risenta del mutamento dello scenario di cui è a tutt’oggi istituzione fondante. Non solo in relazione al nuovo diritto di famiglia, alla relativamente recente introduzione di separazione e divorzio, al numero crescente delle convivenze o delle famiglie ricostituite, ma in virtù delle nuove motivazioni che ne stanno alla base.
In un contesto sociale caratterizzato da crescente aggressività e competitività, in cui il principio etico dominante è primariamente la responsabilità verso sé stessi, la mediazione consente un approccio alternativo alla gestione del conflitto, la possibilità di ristabilire una comunicazione interrotta, una combinazione di soluzioni accettabili da tutti coloro che risultano coinvolti nella disputa. Consente di trovare soluzioni, di rinunciare a qualcosa in cambio di qualcos’altro, ma soprattutto enfatizza la “responsabilità personale dei partecipanti in quanto saranno essi stessi ad assumersi il compito di decidere come regolare le proprie vite in futuro, dopo la separazione o il divorzio”.
Anna Scalori
La bigenitorialità
I genitori hanno l’opportunità, in mediazione, sia di sviluppare, come abbiamo detto, un consenso reciproco alla bigenitorialità, sia di realizzare la paternità e la maternità in modo nuovo. Capita, infatti, sovente nel corso delle mediazioni, di accogliere lo stupore dei genitori per la constatazione di diverse e spesso più soddisfacenti modalità di rapporto con i figli.
Ciò si spiega facilmente se consideriamo che – se per certi aspetti la volontà di maturare ancora insieme una progettualità genitoriale vincola e appare, quindi, paradossale nel momento in cui due persone sperimentano il bisogno di separare le proprie strade – per altri aspetti proprio questo vincolo, attraverso la mediazione, scopre spunti creativi e originali in quanto privi dei condizionamenti relazionali derivanti dalla conflittualità del quotidiano o dalle prescrizioni normative che azzerano la capacità di operare delle scelte autonome.
La possibilità che si realizzi un consenso alla bigenitorialità è un passo preliminare a qualsiasi ipotesi di mediazione, intesa come rituale passaggio dalla chiusura e dall’isolamento alla riapertura dei canali comunicativi e al recupero di una qualità relazionale significativa.
La mediazione non ha come obiettivo principale la soluzione del conflitto attraverso la stipulazione di accordi più o meno accettabili; essa si pone la finalità primaria di consentire l’incontro tra due persone che vogliano ancora sentirsi genitori e che, attraverso il riconoscimento e l’accoglienza di un inevitabile dolore, hanno la possibilità di scoprire e potenziare capacità antiche e recenti, dando origine a un processo globale di cambiamento e di realizzazione personale e familiare.
Ascolto e accoglienza
La mediazione non è utile ai genitori soltanto perché permette loro di sostenersi vicendevolmente e di sviluppare una maggiore sensibilità al proprio ruolo, essa li aiuta anche ad “apprendere” un ascolto più attento e più autentico dei figli.
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La mediazione, allora, può avere l’effetto di rassicurare i genitori, di aiutarli a riflettere sulle manifestazioni emotive dei propri figli, di inventare nuove modalità d’interazione e riacquistate capacità di accoglienza di tutta la vasta gamma di emozioni, a volte contrastanti, che accompagnano l’esperienza della separazione nel vissuto dei bambini e degli adolescenti.
Se ne deduce che quello della mediazione diventa uno spazio adeguato perché il minore trovi risposte ai suoi principali bisogni; in particolare, quello di vivere un’affettività serena con entrambi i genitori e quello di essere tutelato nel diritto a preservare il proprio equilibrio psicologico.
Spazio di tutela, abbiamo detto, ma anche tempo di tutela che si realizza mediante l’attenzione ai tempi del bambino: tempi di elaborazione di una perdita, tempi di assenza di contatto con uno dei genitori, tempi più o meno ampi che, se non vengono riconosciuti, possono indurre compromissioni a livello psichico.
I tempi e i modi caratteristici delle procedure giudiziarie incontrano di solito inadeguatamente lo stato di disagio del bambino, intervenendo, per esempio, troppo precocemente sulle sue aspettative di riconciliazione genitoriale o, al contrario, presentando ritardi quando da lungo tempo sono stati interrotti i rapporti con uno dei genitori.
Il merito della mediazione è quello di rispettare i tempi dei minori e dei loro genitori, accompagnandoli nell’elaborazione della sofferenza, aiutandoli a capire senza drammatizzare o banalizzare, lavorando perché si realizzino dei cambiamenti adeguati ai bisogni di ciascuno.
Association pour la promotion de la médiation familiale (APMF, 1990).
I bambini in mediazione
Anche l’opzione metodologica di far intervenire i bambini nel corso di qualche incontro di mediazione sembra essere una scelta efficace; tale esperienza viene favorevolmente accettata dai bambini, perché lo stile comunicativo esibito dal mediatore, rispettoso e accogliente, oltre che permettere ai genitori il riconoscimento dei bisogni dei figli, può favorire nei bambini una comprensione meno drammatica e mistificata degli eventi vissuti dalla propria famiglia. Ciò sta a significare che per il bambino non è tanto traumatico conoscere la verità, quanto riceverne informazioni sofferte e distorte.
La mediazione costituisce per il bambino uno spazio protetto e tutelare perché gli consente di ascoltare e di essere ascoltato, di leggere i comportamenti dei propri genitori non come risultato della mancanza di affetto o di interesse, ma piuttosto come manifestazione di sofferenza e talora di debolezza.
La sofferenza, che anche in mediazione il minore è costretto a vivere, non costituisce un’esperienza distruttiva, ma gli permette di maturare e accettare nella vita una quota inevitabile di eventi dolorosi, comprendendo che ad essi vi può essere, almeno in parte, rimedio, nello specifico costituito dalla possibilità di continuare ad avere rapporti con i propri genitori “divisi”, rapporti che in qualche caso, dopo qualche tempo, possono anche rivelarsi più soddisfacenti.
Il bambino può permettersi con il tempo di liberarsi dai sentimenti di paura, rabbia, colpa, scoprendo genitori diversi e sperimentando un nuovo modo di sentirsi figlio. Può accadere, infatti, quando la mediazione ha esito positivo, che il bambino possa sviluppare una sorta di libero consenso al proprio essere figlio di entrambi i suoi genitori, persi per qualche tempo, scelti un’altra volta e forse ritrovati su basi più consapevoli.