Cambiare per non cambiare
Rafforza la dipendenza. Genera ambigue commistioni.
In taluni casi, la mediazione sembra non produrre quegli esiti positivi che ci si aspetterebbe, date le premesse, e sollecita, di conseguenza, atteggiamenti di scetticismo e di diffidenza.
Evidentemente, è possibile rinvenire elementi esterni di fallimento ed elementi fallimentari interni al processo mediativo in sé: questi ultimi possono attenere al comportamento dei partecipanti all’attività mediativa, ma possono riguardare i modi particolari di condurre un intervento di mediazione da parte del mediatore.
La mediazione familiare, come si sa, si ispira ad alcune idee-cardine: la fine del legame coniugale non può e non deve comportare la conclusione del rapporto genitoriale; le scelte sull’organizzazione e riorganizzazione del nucleo “scisso” spettano ai genitori; attivare un percorso mediativo significa restituire alla coppia parentale la responsabilità dei compiti genitoriali; la
La mediazione familiare nasce invece sempre negli Stati Uniti ma negli anni Settanta; si diffonde rapidamente in Canada, Gran Bretagna e arriva in Italia, con un po’ di ritardo, negli anni Ottanta, con il Ge.A. a Milano (l’Associazione Genitori Ancora) e presso l’Università “La Sapienza di Roma”.
“A partire dagli anni Settanta nel Nord America vennero studiati e realizzati programmi di mediazione familiare più accurati nei procedimenti e maggiormente adattabili alle circostanze familiari, grazie a una maggiore consapevolezza culturale di cercare in contesti extragiudiziali accordi soddisfacenti che risolvano le rigide controversie familiari di chi affronta il divorzio. I pionieri di questa pratica sono stati O. J. Coogler (1978), J. Haynes (1981) e H. Irving (1981) che ne hanno elaborato i fondamenti teorici, aprendo la strada di questa pratica anche agli altri Paesi d’oltreoceano” (Prendersi cura delle famiglie, a cura di Di Nicola P., ed. Carocci, 2002).
In questi casi, il ricorso alle procedure giudiziarie, alimentate da reiterati ricorsi, serve a perpetuare il conflitto, e dunque il legame, attraverso una sorta di guerra senza fine. Ne consegue che, piuttosto che concentrarsi sull’interesse dei figli, gli ex coniugi continuano a litigare su contenuti particolari, minimi, assunti, ovviamente, a pretesto per preservare personali posizioni di potere. Essi non prestano neanche il proprio consenso alla partecipazione all’intervento di mediazione, preferendo continuare a combattere, utilizzando i figli. Gli esiti di questo confliggere a tempo indeterminato possono essere drammatici e condurre alla definitiva chiusura del figlio al rapporto con uno dei genitori, alla negazione dell’esistenza del genitore “assente”, alla identificazione con il genitore affidatario col conseguente pericolo d’insorgenza di scompensi di carattere psicologico.
Il mediatore pedagogo
Quando parliamo di mediazione usiamo spesso il termine contesto di mediazione per intendere che si tratta di un sistema di cui il mediatore è parte integrante. In quanto tale, egli contribuisce all’evoluzione o all’involuzione del sistema in direzione del cambiamento.
Considerato a sé, il mediatore si definisce per talune qualità quali l’accoglienza, l’imparzialità, la confidenzialità. Con esse si intende far riferimento a un atteggiamento espresso dal mediatore nel corso dell’intervento, che riguarda la capacità di accogliere con empatia le emozioni delle persone, senza giudicare o parteggiare per una o per l’altra, ma, al contrario, accogliendo entrambe per stimolare la comprensione reciproca
U. Beck
L’utilizzazione del termine atteggiamento non è casuale, perché il mediatore non adotta tecniche o stili di conduzione, ma presenta un modo di “essere con” gli altri, esprime anch’egli una forma di consenso, cioè di “sentire con”; non assume le qualità mediative per una sorta di adeguamento alle caratteristiche formali del ruolo, ma conquista gradatamente e faticosamente la sua posizione mediana, attraverso l’accoglienza dell’uno e dell’altro in quanto persone, al di là delle sterili categorizzazioni di ruolo.
Può accadere, tuttavia, che il mediatore pensi al suo intervento non in termini di empatia, ma in termini di tecnica. È il caso, per esempio, del mediatore pedagogo.
Il rischio di considerarsi giusti e capaci per definizione, cioè per il semplice fatto di essere mediatori, può indurre la tentazione di attivare la cosiddetta “mediazione pedagogica”. I partecipanti ai corsi di formazione alle prime armi, quando sono invitati a elaborare una definizione sulla mediazione familiare, spesso la descrivono come un intervento educativo, utile agli ex coniugi per imparare ad essere, diventare bravi genitori. Possiamo immaginare cosa succederebbe se, lontano dagli ambienti di formazione, nella pratica della mediazione, il mediatore cominciasse, facendo ricorso alle proprie conoscenze, a insegnare cosa è giusto e cosa è sbagliato per essere genitori efficaci.
Uno degli effetti probabili di tale atteggiamento potrebbe essere quello di indurre sentimenti di colpa in quei genitori che non riuscissero ad adeguarsi allo standard proposto, ovvero potrebbe verificarsi un’impossibile aderenza di un modello precostituito alle differenti storie interpersonali e familiari.
Un simile intervento deve considerarsi deontologicamente scorretto dal momento che si sostanzia nel rinforzo di quei comportamenti di dipendenza, in questo caso dal mediatore, che nelle premesse indica di voler superare attraverso l’esplicitazione delle competenze improntate all’autonomia e alla responsabilità. Non solo, ma esso si sostanzia più come un intervento da “scuola per genitori” che come un’attività di tipo mediativo.
Il mediatore negoziatore
Non è possibile immaginare un incontro di mediazione in cui il mediatore non
Empatia significa trasmettere il messaggio: “Comprendo quello che dici e come ti senti”, in modo che questa consapevolezza divenga possibile da parte di ciascun utente nei confronti dell’altro. Se non c’è empatia, l’operatore non può partecipare al processo del consenso, poiché egli non è nella condizione di con-sentire, cioè sentire con le persone in mediazione. Di conseguenza non è capace seriamente ed efficacemente di innescare, a partire dalle sue risonanze e dai suoi rispecchiamenti, un processo di reciproca empatia e di consenso tra le parti. Riattivare la comunicazione diventa, allora, un cercare di fare accettare all’uno le ragioni dell’altro, piuttosto che far comprendere queste ragioni e i sentimenti a cui sono legate.
L’accordo può somigliare più a un compromesso, può risultare rigido, fasullo, di comodo, un accordo “purché sia” (accetto le condizioni dell’accordo anche se non le condivido in realtà fino in fondo, purché tutto ciò finisca, purché questa farsa abbia termine) e dunque è un accordo fallibile; di conseguenza l’intero processo si rivela fallimentare.
L’accordo stilato secondo una griglia fissa di criteri, di trattative tra i confliggenti, di concessioni “do ut des” tra l’uno e l’altro dei genitori, non è propriamente ciò con cui la mediazione si può identificare; certo questa parte contrattuale fa parte della mediazione, ma si raggiunge solo dopo un percorso che ha coinvolto l’insieme del sistema mediativo (mediatore e mediati), in cui si è realizzato un lavoro sulle emozioni, sull’affettività, sulla comunicazione, che è base e necessaria preparazione alla fase della negoziazione e dell’accordo. Dell’accordo vero.
Un accordo svincolato da una preventiva presa di coscienza e dallo sviluppo di una consapevolezza da parte di entrambi i genitori ha scarse possibilità di durare nel tempo.
Il cambiamento, l’accordo negoziato sugli aspetti esterni e concreti della nuova situazione che li coinvolge da protagonisti, deve seguire a un cambiamento e a un accordo sugli aspetti interni, emotivi che per ciascuno la nuova realtà comporta e su cui è difficile immaginare un processo di
La negoziazione appartiene alla mediazione, ma non coincide con essa. Intendere la mediazione essenzialmente come negoziazione significa amputarla di altri elementi essenziali. Significa minarne alla base la riuscita e l’efficacia.
Gli elementi esterni
Si può, generalizzando, individuare nella difficoltà del contesto culturale ad accogliere la mediazione, l’elemento esterno che provoca il fallimento dei concreti percorsi mediativi, ma che può incidere anche nel più globale processo di diffusione della cultura mediativa.
Abbiamo già detto che la mediazione familiare nel nostro Paese è ancora in una fase di riconoscimento e di legittimazione.
I tentativi messi in atto, all’interno di più generali progetti di riforma della normativa sul diritto di famiglia, di darne una definizione, sono risultati pressoché fallimentari.
I motivi di tale fallimento sono da rapportarsi a una diffusa confusione tra interventi di tipo mediativo e altri e diversi tipi d’intervento, quale la consulenza tecnica d’ufficio, la consulenza familiare, il tentativo di conciliazione, la presa in carico psicologica delle conflittualità familiari.
La confusione riguarda anche la collocazione della mediazione, cioè se essa debba essere prevista all’interno delle procedure giudiziarie in materia di separazione e divorzio o essere attivata parallelamente al giudizio e collocarsi sul territorio per diventare uno dei tanti interventi di sostegno messi in atto dai consultori familiari.
In taluni casi si parla molto genericamente di “esperti”, per indicare operatori di diversa professionalità capaci di aiutare la coppia alle prese con la separazione a superare i momenti più critici dell’evento separativo.
Si ha l’impressione che ci sia una sorta di difficoltà a riconoscere la figura del mediatore familiare nella sua specificità, privilegiando ambigue commistioni di attività conciliative, di controllo, di consulenza, di terapia, di educazione alla genitorialità.