La Chiesa al centro
Settantotto anni per Joseph Ratzinger, due mesi appena per Benedetto XVI. C’è chi ha ipotizzato “sorprese” da parte del nuovo Papa e chi invece prevede che sarà il Ratzinger di sempre. Tralasciando desideri e timori, l’unica base per un giudizio restano gli scritti e i comportamenti del cardinale bavarese a confronto con gli atti fin qui compiuti dal successore di Wojtyla.
Con lo storico Alberto Melloni siamo andati alla ricerca di “tracce”.
“Tra gli ultimi discorsi da cardinale e i primi da Papa – osserva Melloni –
È stata notata una differenza tra il cupo pessimismo contro il relativismo dell’ultimo discorso da cardinale e le parole più “misericordiose” del nuovo Papa nel primo incontro con i porporati.
Non lo definirei pessimismo: fa parte delle strutture profonde del pensiero di Ratzinger. Il suo discorso sulla società contemporanea è complesso e non credo proprio che abbia cambiato idea. Da un lato Ratzinger fa un grande riconoscimento alla modernità per aver riportato la razionalità dentro al discorso di fede; dall’altra parte è convinto che una società che non fondi metafisicamente la radice della propria etica non è in grado di produrre alcuna etica. Per parafrasare Dostoevskij, se Dio non esiste tutto è possibile. È un punto fondamentale del suo pensiero, non può ridursi a tattica. A Subiaco Ratzinger era stato durissimo sulla mancata citazione nel Trattato europeo delle radici cristiane e di Dio, una richiesta quest’ultima che Wojtyla aveva lasciato cadere. Da Papa, Benedetto XVI non ha speso una parola sulla questione, ma resta convinto che i cristiani hanno da svolgere un ruolo nella società per tutti testimoniando il radicalismo ultimo di Dio. Questo è un bel problema, non tanto per la modernità occidentale – al di là degli opportunismi politici – quanto perché presuppone che il modo occidentale di organizzare il rapporto tra legge ed etica sia l’unico possibile e con questo rende incomunicabili gli altri universi religiosi e sociali.
C’è differenza tra Wojtyla e Ratzinger nel proporre il fondamento teologico della morale?
Secondo me sì. Per Wojtyla esisteva un caposaldo: “L’uomo via della Chiesa”. Per Ratzinger vale quasi il contrario: è il percorso della Chiesa che umanizza l’uomo. Non è materia dogmatica, ma è un cambio di prospettiva che investe la società. Sarebbe scorretto descrivere Ratzinger come un Papa che impone qualcosa dall’esterno alle società occidentali, ma certo non nutre fiducia sulla capacità delle democrazie di raggiungere compromessi nobili. Onestamente si deve riconoscere che tutti noi in Occidente siamo coscienti che non basta metterci d’accordo per assicurare il bene.
Ratzinger sembra convinto più di Wojtyla che il pensiero cristiano è in minoranza.
La differenza è di esperienze. Il Papa polacco ha sempre fatto il prete, aveva un approccio pastorale. L’esigenza di chiarezza del discorso è invece costitutiva per Ratzinger, professore da sempre. Mira alla tornitura del tema e, se non lo tornisce, lo riduce a un discorso spirituale più o meno d’occasione. Rispetto ai testi iniziali di Wojtyla quelli di Ratzinger appaiono molto meno sanguigni. Se c’era un’illusione è che, eleggendo Ratzinger, si potesse trovare un clone di Giovanni Paolo II.
Mi pare che nessuno lo pretendesse.
Mi riferisco ad esempio alla petizione per “Wojtyla santo subito”, all’idea che tutto si giocasse su ciò che si pensava della sua eredità.
E le “novità” di papa Ratzinger dipendono solo dal cambiamento di ruolo o magari da un compromesso in Conclave?
In un caso o nell’altro il risultato non cambia perché nel ruolo di Papa non è possibile compiere atti in cui non si crede. Può esserci stato qualche effetto immediato della conversazione conclavaria, ad esempio nella scelta di tenere discorsi in latino, ma alla fine emergerà comunque il pensiero di Ratzinger. Non sarà qualche compromesso elettorale a farlo cambiare, semmai il modo in cui saprà percepire una vastità di Chiesa che in fondo gli è rimasta estranea. È convinto, infatti, che la questione si giochi in Europa. La sua elezione è stata per la Germania non meno importante di quanto lo fu quella di Wojtyla per la Polonia. Si avverte questo fatto come chiusura definitiva dell’epoca della guerra mondiale, talmente chiusa che Benedetto XVI ne ha lasciato passare l’anniversario senza dire una parola.
Attenzione all’Occidente: corre il rischio di non comunicare con il resto del mondo?
Non parlerei di rischio, si tratta di una concentrazione voluta di interesse. Nella sua concezione di Occidente le Chiese protestanti americane sono inglobate molto più di altre, perché poste di fronte alla sfida del razionalismo che, a suo parere, è disposto ad accettare le religioni solo se si sottomettono. Le altre realtà del mondo, benché non trascurabili, gli sembrano consequenziali. Se la Chiesa dovesse perdere la sua funzione essenziale in Europa, allora anche la maggioranza di cattolici in America Latina sarebbe meno importante. Un esempio del suo approccio? Benedetto XVI ha parlato ai vescovi sudafricani della famiglia tradizionale, ma anziché a quella tradizionale africana stava riferendosi a una famiglia europea.
Tenterà una riconciliazione, oltre che con i lefebvriani, anche con i teologi che aveva colpito duramente?
Non credo. Benedetto XVI non è un “Paolo VI”, non ha la visione montiniana della mediazione politica tra pulsioni diverse nella Chiesa. Anzi, visse la situazione di allora come lacerazione e ha finito per considerare quell’esperienza la vera svolta della sua vita. Per lui la reazione al 1968 è come un sacramento, ha contato più dell’ordinazione. Arrivò al Concilio già formato intellettualmente, è molto più pre-conciliare di quanto si creda. Il futuro non europeo del cristianesimo se lo dovranno fare i non europei. È stata un’illusione amaramente pagata dalla teologia della liberazione l’idea che si potesse imparare il cristianesimo latinoamericano a Lovanio o a Resemburg laureandosi con Ratzinger, come fece Boff. La de-europeizzazione del cristianesimo è un trend inevitabile che seguirà le sue tappe, di comunione o di lacerazione, ma certo avverrà nel vivo del tessuto della Chiesa, nel modo in cui i vescovi dialogheranno con la curia e il Papa. Una Chiesa più “cattolica” dipenderà da tutte le sue parti, non sarà un Papa europeo a concederla.
La scelta del nome è un segno?
Di secondo piano: un nome della tradizione che interrompe la serie dei nomi conciliari, giustamente, perché al Concilio Ratzinger fu teologo, non vescovo. Ha assunto il primo nome “potabile” prima dei Papi del Concilio.
Dunque non si aspetta sorprese in senso riformatore?
Il mestiere di Papa non è fatto per sorprendere. Che un intellettuale di 78 anni, così radicale, con un’architettura di tipo filosofico e dottrinale, tenti colpi a sorpresa mi sembrerebbe davvero strano. Lo si è visto anche nei suoi discorsi: una volontà molto spiccia di ridurre gli elementi di spettacolarità.
Non si parla di gesti ma di scelte d’azione.
Ratzinger non è uomo di gesti. Con Wojtyla, perfino in assenza di parole o contro le parole, il gesto veniva a supplire l’impasse dottrinale. Era evidente uno stato di tensione, specialmente sul piano interreligioso, tra i gesti di Giovanni Paolo II e la macchina vaticana. Non credo che Benedetto XVI prenda questa via. Per ora, ma siamo solo agli inizi, a farmi rizzare le antenne è stato il cenno fatto dal Papa a Bari sull’Eucarestia, una professione di fede sul proprio impegno ecumenico. Mi è sembrato alludere al tema della comunione eucaristica tra le Chiese, che è il vero punto su cui si giocano i rapporti. Vedremo.
Ha insistito su ecumenismo, riflessione sul primato petrino e rapporto con gli ebrei. Per contro, silenzio sull’Islam.
Vero. Sono aspetti che rientrano nel tessuto profondo di Ratzinger. C’è una vulgata accreditata da libri idioti che vanno a cercare distinzioni nel percorso ratzingeriano trascurandone le strutture costanti. Ratzinger scrisse con Ranher Episcopato e primato prima del Concilio. Sul servizio petrino ha idee molto chiare, non soffre paranoie infallibiliste da teologo morale. Si sussurra che sia stato lui a trattenere Wojtyla da un uso dell’infallibilità per la Evangelium vitae. Sul ministero petrino è perciò in grado di compiere dei passi in avanti forse con maggiore tranquillità di Wojtyla. Per lui, a essere in conflitto con la modernità non è il papato ma la fede, è la Chiesa. In questo senso, tutto quanto andrà a vantaggio del dialogo ecumenico avrà delle contropartite su altri piani.
Ciò lo avvicina agli ortodossi?
Rende possibile un dialogo più fitto con loro. Al contempo però sul ruolo della Chiesa come grande albero su cui si posano anche gli uccelli che non ne fanno parte, Ratzinger è del tutto solidale con l’orientamento civile religionistico del battismo americano. In questo momento a porre veramente problemi alle altre Chiese sono gli anglicani. Non da oggi sono loro a guardare alla modernità in un modo che per gli altri risulta sconvolgente: già la Casti connubi di Pio XI nacque nel 1911 in polemica con gli anglicani che avevano ammesso la contraccezione.
Ebraismo e islam, invece, rientrano entrambi in una zona che è un po’ come quella riservata all’identità dell’America Latina. A Ratzinger non hanno mai interessato molto.
Nemmeno l’ebraismo?
Nemmeno. Anzi se si va a vedere la querelle con Kasper su Chiesa particolare e Chiesa universale si vede che Ratzinger ha un’idea di precedenza della Chiesa universale basata sul fatto che il collegio degli apostoli sostituisce integralmente Israele, con un radicalismo indigeribile per un credente ebreo. Benedetto XVI cercherà sicuramente di mantenere rapporti con il mondo ebraico, la gergalità e la cortesia che risalgono a Wojtyla, come l’espressione “fratelli maggiori”. Ma in questo campo tenderà a rimanere fermo. L’ebraismo rappresenta per il cattolicesimo la cifra di un’alterità irriducibile: Dio non ha fatto gli ebrei perché diventino cattolici. Riflettere profondamente e teologicamente sull’ebraismo vorrebbe dire domandarsi se questo non riguardi, ben oltre gli ebrei, tutte le alterità sia in senso religioso che etico, culturale e morale. E un tale approccio è estraneo a Ratzinger. Benedetto XVI dice che la Chiesa deve diventare ciò che è: in questa posizione ecclesiologica non c’è posto per le altre religioni. Certo può esserci un orientamento a Cristo anche negli altri ma è pur sempre un ragionamento inclusivo. La Chiesa non ha nulla da imparare da loro, tanto meno su di sé. Per cui, non mancheranno le espressioni cortesi – non farà certo i discorsi sull’islam che fa Pera – ma non ci si possono aspettare interrogativi penetranti.
Non vive la stessa preoccupazione wojtyliana per lo scontro di civiltà? È vicino ai teo-con americani?
Sul conservatorismo battista americano ha un giudizio diverso da Wojtyla. In Giovanni Paolo II era molto forte la percezione del rischio che la politica trascinasse il cristianesimo in una guerra. Wojtyla ricevette Bush e il presidente mise sul piatto la condanna dei matrimoni omosessuali e la legislazione antiabortista per meritarsi l’appoggio della Santa Sede: e questa gli rispose con un discorso contro la guerra. Per Ratzinger vale una logica diversa: quel cristianesimo, anche minoritario, che riesce a dettare un’agenda di impegno civile fa qualcosa di importante, esprime una teologia politica. Ratzinger si preoccupa meno delle conseguenze. Ma qui subentra un’altra questione: quali aspetti saranno curati dal Papa e quali invece delegherà?
Appunto. Che ruolo avrà la Curia? La nomina di Levada alla Congregazione per la dottrina prelude a un basso profilo? E con le Chiese nazionali?
Nel giro di dodici mesi dovrà fare sei nomine su nove nelle congregazioni e altrettante nei consigli. C’è poi la questione di Sodano, suo coetaneo, rinnovato ma non fino alla scadenza quinquennale. Rimanendo rappresenterà una continuità con la politica wojtyliana, il peggior dispiacere per Bush. La nomina di Levada è difficile da interpretare: è una figura di basso gradimento in un mondo americano attraversato da una crisi di proporzioni cinquecentesche. Difficile prevedere se Ratzinger vorrà esaminare personalmente i dossier dei vari dicasteri. Veniamo da 27 anni in cui il Papa ha smesso di guardarli. Il grosso dipenderà dalla scelta del segretario di Stato, perché la politica è il terreno meno congeniale a Ratzinger. Sulle Chiese nazionali la questione è più spinosa. Se la Chiesa universale precede quelle particolari, ci sono delle conseguenze all’interno della comunione cattolica. Anche Ratzinger ha parlato in questi due mesi due volte di Chiese sorelle ma si riferiva alle diocesi, tutte figlie di una stessa madre universale. In realtà ha sempre considerato le Conferenze Episcopali uno strumento utile ma senza alcuna consistenza teologica. Mentre Wojtyla conosceva l’importanza della Conferenza per confortarsi e resistere, l’approccio di Ratzinger è più solitario. Ha però davanti un’occasione in cui dovrà ascoltare e decidere: la Conferenza dell’Episcopato latino-americano che dovrebbe tenersi nel 2006 a Quito è una grande sfida perché la dimensione continentale della Chiesa è il banco di prova della collegialità. Se vorrà essere collegialità di organi e non solo di affetti, come Benedetto XVI ha detto ai cardinali, dovrà coinvolgere gli organi della comunione tra i vescovi.
Riconoscerà potere ai Sinodi?
È un tema connesso a quello del ministero petrino. Non sarei sorpreso se Benedetto XVI togliesse il Sinodo dalla condizione grottesca in cui si trova, dandogli qualche potere. Tuttavia, avendo osservato la gestione della sede vacante, viene il dubbio che il problema vero non sia quello degli organi ma della qualità del personale ecclesiastico.
Una Chiesa più clericale? E quel famoso monito contro la “sporcizia” nella Chiesa?
Che il clero sia il grande problema della Chiesa è sicuro. Esiste un deficit di cultura, di formazione e di disciplina. Questo però non dipende dalla “cattiveria” dei preti, ma è conseguenza del modo in cui si sono scelti i vescovi, i quali a loro hanno volta hanno scelto i sacerdoti; ed è anche conseguenza di una campagna sul numero delle vocazioni che è andata a finir male. I preti sono il vaso di coccio dei problemi della Chiesa, su di loro incombe l’obbligo di far finta che norme morali largamente disapplicate vengano rispettate da tutti. Il cenno alla sporcizia non può non riferirsi all’infinita tragedia americana della pedofilia, che non è assolutamente solo americana. Non c’è stata una riflessione adeguata sulle ragioni per cui un’intera leva di vescovi non è stata in grado di reagire con senso di giustizia e ha invece assunto atteggiamenti di copertura. Ma il modello di prete che il cardinale Ratzinger interpreta mi pare che difficilmente potrà farsi carico dei problemi futuri.