Memoria ponte
La coesistenza di un decennale
Roberto Dall’Olio: Non pensi che dobbiamo cominciare proprio dal modo in cui tendiamo a vivere gli anniversari? A volte essi assomigliano a un destarsi di soprassalto della coscienza individuale, collettiva e sociale, e all’immenso desiderio di recuperare il tempo perduto. Poi, quando la grande marea dell’attenzione si ritira lasciando i rifiuti del suo grande pasto, ecco che ritorna il sonno ciclopico della coscienza. Probabilmente questo “riposo” è fisiologico nel mondo dell’informazione usa e getta. Ma non mi pare altrettanto per la rapidità con cui sembriamo voler superare le tragedie della storia. Come se il guizzo di un sogno potesse cancellare il lungo dolore delle
Edi Rabini è collaboratore della Fondazione Alexander Langer. Per Sellerio ha curato con Adriano Sofri la raccolta Il viaggiatore leggero.
Edi Rabini: Sì, non c’è un rapporto diretto, di causa ed effetto, tra la tragedia bosniaca e il suicidio di Alex Langer. Ogni tanto trapela questo legame in forma di consolazione, di omaggio estremo per un modo di morire che non si comprende e non si vuole accettare, un cercare di penetrare il mistero. Alex ha spiegato in modo limpido il suo stato d’animo e le sue difficoltà esistenziali, utilizzando la potenza della parabola religiosa, del profeta Giona a S. Cristoforo. Oppure, nel ricordare Petra Kelly, identificandosi nella solitudine degli Hoffnungsträger, i portatori di speranza. Nei bigliettini che ha lasciato prima di darsi la morte non c’è traccia di un collegamento con la strage di Tuzla del 25 maggio, che preannuncia quella imminente di Srebrenica dell’11 luglio.
Eppure questa coincidenza dei due decennali ce la siamo trovata e ce la teniamo ben stretta. Perché troppo simili sono i dolori delle vittime, dei superstiti di un omicidio come quelli di un suicidio.
Sono lutti che non terminano mai. Sono ferite che possono forse essere un po’ lenite da momenti di riconoscimento, anche rituale, di ciò che di buono è stato e che continua ad agire. Chiedevamo a Irfanka Pašagić, la destinataria del premio 2005, come avremmo potuto ricordare Srebrenica. Lei ci ha invitato ad andare là, come faremo (al momento in cui l’articolo è scritto, ndr) con 45 giovani per incontrare altri giovani e per partecipare alle commemorazioni che si annunciano solenni. Ma soprattutto a continuare a tessere tenacemente quella rete di rapporti concreti, personali e quotidiani, cresciuta con i 900 bambini adottati a distanza.
La nostra memoria
Edi Rabini: Ma guardiamo un po’ a come noi qui ci rapportiamo alla nostra di memoria. Solo da poco abbiamo almeno una giornata che ricorda la Shoah. E da alcuni anni si riescono ad affrontare pagine dolorose come l’esodo istriano, le responsabilità italiane nelle guerre coloniali. Si apre, forse, l’armadio della vergogna sui processi insabbiati ai crimini nazi-fascisti. E sono passati 60 anni. Nei giorni in cui ricordare era più impegnativo, era fuoco sulle ferite aperte, chi prendeva la parola per reclamare giustizia, veniva etichettato come sobillatore, disturbatore della quiete pubblica. Così è successo ad Alexander Langer all’inizio degli anni Ottanta quando osò denunciare l’assenza di riflessione collettiva intorno a quella grande tragedia che in Sudtirolo furono le opzioni del 1939, decise da Mussolini e Hitler per ripulire l’Alto Adige dalla presenza di una minoranza di lingua tedesca.
Così succede oggi in Bosnia a chi cerca una conciliazione che non sia negatrice della verità e della giustizia, a chi vuole dare almeno degna sepolture alle vittime ritrovate in fosse comuni, o a portare davanti a un tribunale gli autori dei crimini riconosciuti.
Ma tu, che non conoscevi Alexander Langer, come hai vissuto quel suo prendere di petto dal 1993, anche a costo di risultare isolato tra i suoi amici, la necessità di interrompere l’assedio di Sarajevo? Ne hanno tratto qualche insegnamento le istituzioni e i movimenti di pace?
Roberto Dall’Olio: Come sai Langer lo conoscevo “solo” come uomo pubblico. Rimasi poi folgorato dalla lettura dei suoi scritti postumi parzialmente raccolti ne Il viaggiatore leggero. Quei mesi del 1995 furono difficili anche per me, stavo inseguendo la guarigione da una diagnosi di
Lì, nell’ambito della rete internazionale, “Ponti di donne tra i confini” ha fondato il centro “Tuzlanska Amica” che ha adottato a distanza e dato una famiglia a oltre 900 bambini, diventando uno dei pochi luoghi dove donne, bambini, uomini traumatizzati, possono ricevere aiuto psicologico, ma anche assistenza medica, sociale, legale, in un territorio dove vivono ancora, in condizioni molto precarie, oltre 250.000 profughi.
Con l’assegnazione del Premio Euromediterranea a Irfanka Pasagic, presidente di Tuzlanska Amica, la Fondazione ha voluto contribuire a una necessaria riflessione sulla strage genocidaria di Srebrenica e nello stesso tempo a ripercorrere i passi che avevano portato Alexander Langer ad adottare dieci anni fa le ragioni della città interetnica di Tuzla.
Notizie sulle attività della
Fondazione Alexander Langer Stiftung
in http://www.alexanderlanger.org,
langer.foundation@tin.it ,
telefono o fax 0471-977691.
Nemmeno la pace può essere un assoluto, se non come ideale regolativo. Perché ogni assolutismo è fondato necessariamente su una essenzialità extra storica e impedisce di conseguenza un vero confronto tra differenze. E anche quella che tu Edi definisci un “prendere di petto” la tragedia di Sarajevo fu la ricerca di un’“immersione onesta” nella storia, la solita vecchia storia. Per fare cosa? O per evitare cosa? Per evitare, credo, di scivolare in una forma di ipocrisia sottilissima ma non per questo meno perniciosa.
L’ipocrisia di salvare sempre e comunque la propria coscienza. Ma Sarajevo ha rappresentato il luogo della rottura della convivenza e forse la crisi stessa dell’idea di storia che abbiamo in Europa. Una storia che è al tempo stesso idealmente universalistica e però nata all’interno della civiltà greca. Noi vogliamo la pace ma contemporaneamente proponiamo una nostra egemonia.
Io credo sia stata sottovalutata la lacerazione che tale contrasto nei giorni di Sarajevo si sia prodotta nella mente di Langer. Immergersi nelle situazioni lacerate produce lacerazione in chi lo fa, molto meno in chi evita di sfidare i limiti del proprio pensiero pur continuando ad agire. Mi chiedi delle istituzioni e dei movimenti per la pace. Su questo punto credo che la cultura della pace, cui io spero di appartenere, debba essere radicale e riconoscere che spesso si mostra troppo convinta di essere sempre e comunque dalla parte giusta e di guardare al mondo altro, della “violenza”, delle armi, della polizia, dell’esercito con un fondamentale pregiudizio. Penso a uno come Bonhoeffer. Alla sua scelta di partecipare all’attentato contro Hitler. Sono situazione estreme, come lo era Sarajevo per Alexander Langer. Situazioni in cui si è stretti (stritolati) nel drammatico conflitto tra le proprie convinzioni e le proprie responsabilità.
Non è forse anche questo uno dei modi con cui si è andata elaborando la memoria di Langer e le “linee” della Fondazione che porta il suo nome?
Note
Alexander Langer: Lentius, profundius, suaviusSreberenica: le ferite del silenzio
Euromediterranea 2005 – Bolzano 25 giugno – 12 luglio 2005