La fine della guerra
Ho visto la prima volta il volumetto, senza nome di autore, in mano a un compagno cremonese (Palmiro Alquati) del collegio universitario di Padova, forse copia della seconda edizione del 1957. Sul quindicinale Adesso – fondato da don Primo Mazzolari (1890-1959) il 15 gennaio 1949 – erano usciti molti articoli dell’allora parroco di Bozzolo (provincia di Mantova, ma diocesi di Cremona), nella rubrica “Pace nostra ostinazione”, ma nel numero della rivista dell’1 maggio 1955 si parlava del Tu non uccidere della Editrice vicentina La locusta come di un volume “piccolo di mole, ma inquietante […] che raccoglie in forma quasi aforistica il frutto delle meditazioni di giovani cattolici sul problema della guerra e della pace”. Era la sintesi delle espressioni usate nell’introduzione della prima edizione dell’opera, quasi per giustificarne l’anonimato, imposto di fatto dall’autorità
La nonviolenza di cui parla Sergio non è soltanto una costruzione teorica di qualche importante pensatore. È piuttosto uno sconfinato mosaico: di idee, fedi, profezia e preveggenza, rischi, sacrifici, impegno e soprattutto volti di persone reali. Un mosaico vivo, che continuamente si aggiorna, si arricchisce e si colora. Sono innumerevoli i volti della nonviolenza che affiorano nel libro che ne rende visibili i tratti caratteristici dell’impegno per la pace. Ogni capitolo è preceduto da una o anche due poesie, perché i volti rappresentati attraverso le opere dei poeti e degli artisti possono esprimere in modi diversi il proprio sentire.
Incrociamo i nonviolenti “storici”, da Mazzolari a don Tonino Bello, i costruttori di azione nonviolenta gandhiani di matrice induista, e buddisti, musulmani, ebrei, cristiani, profeti di nonviolenza di matrice laica, interreligiosa, e politici, artisti, pedagogisti, filosofi…
Ricca la parte relativa al mondo dei movimenti e delle associazioni, dati, nomi, prese di posizione… La dettagliata bibliografia è utile per approfondimenti personali, per scegliere materiali per riflessioni in gruppo, per eventuali ricerche scolastiche.
Una parte notevole del libro riguarda i documenti della Chiesa, dedicati talvolta alla pace legata inscindibilmente alla giustizia, alla libertà e alla salvaguardia della natura; talaltra alla ricerca di soluzioni nonviolente dei conflitti. Fa da sfondo, l’atmosfera dei testi fondamentali della nostra fede. Non manca l’invito a pregare per la pace. Non mancano le preghiere. Perché sarebbe impossibile vivere in modo nonviolento questo tempo pieno di aggressività senza collegamenti con la fonte della nonviolenza.
E infine sono presenti pagine dedicate alla pedagogia che invitano ad approfondire il significato della disobbedienza, attraverso la testimonianza di don Lorenzo Milani e di molti obiettori di oggi, dai veterani del Vietnam a quelli della prima Guerra del Golfo, ai giovani militari israeliani che rifiutano di sparare, alla giovane Rachel Corrie …
La pedagogia della nonviolenza riguarda gli insegnanti più sensibili, le associazioni, i movimenti e le scuole che operano da anni per l’educazione alla pace. Grandi insegnamenti ci giungono dai Premi Nobel per la pace, dai documenti dell’ONU sul Decennio internazionale per una cultura della nonviolenza a beneficio dei bambini, l’Assemblea dell’ONU dei Popoli con la Marcia Perugia-Assisi, il cantiere di Porto Alegre, il Manifesto dell’acqua…
Il libro si conclude con una lettera ai giovani sul realismo della nonviolenza.
Rosapia Bonomi
Sergio Paronetto, La nonviolenza dei volti, Editrice Monti, Saronno (VA), 2004.
Quattro le motivazioni fondamentali della netta condanna della guerra di don Primo, passato dalla tormentata, ma decisa opzione interventista (con quattro anni di guerra e una medaglia al valore) della I guerra mondiale a una sempre più convinta scelta nonviolenta:
- La guerra è irrazionale perché affida alla forza un problema di ragioni e di diritti, mentre occorre “servirsi della ragione per arrivare alla pace”.
- Essa comporta “lo svenarsi nel riarmo prima e nei campi di battaglia poi”, mentre si dovrebbe riflettere sul fatto che “se quanto si spende per le guerre, si spendesse per rimuoverne le cause, si avrebbe un accrescimento immenso di benessere e di civiltà”.
- Anche se dichiarata per combattere il male, essa produce mali di gran lunga superiori a quello che vuole sconfiggere.
- La guerra, infine, è “sempre una trappola per la povera gente”, invitata a morire per le case e per i campi, promessi magari per spingerla a combattere, ma, passato il pericolo, rivendicati dai soliti pochi, disposti a pagare “per togliere alla gente qualsiasi velleità di pretendere qualche cosa del molto difeso uccidendo”.
Non si deve però rinunciare a resistere contro il male, ma scegliere un altro modo di resistere, “la nonviolenza, che è come dire un no alla violenza, un rifiuto attivo del male, non un’accettazione passiva”, sostituendo alla “resistenza della forza” la “resistenza dello spirito”. La pace, infatti, è inscindibilmente legata alla giustizia, essa “non sarà mai sicura e tranquilla – si legge nella conclusione – fino a quando i poveri, per fare un passo avanti in difesa del loro pane e della loro dignità, saranno lasciati nella diabolica tentazione di dover rigare di sangue la loro strada”.
Facciamo la pace
Gli echi di stampa di quel volumetto furono vari e autorevoli. Ne ricordiamo alcuni, a partire da una “scheggia” sul Corriere della Sera del 17 aprile 1955 di Giovanni Papini, che ribadiva – in radicale contraddizione con le posizioni “guerraiole” della giovinezza – la condanna dei tanti miliardi spesi per “ridurre gli uomini giovani e sani in corpi miseramente mutilati o in cadaveri straziati […] rinnegando in modo così assurdo e feroce uno degli insegnamenti essenziali del cristianesimo”.
Un altro intellettuale cattolico, Igino Giordani, scriveva alla rivista di don Mazzolari, in segno di condivisione dell’idea di fondo della sua opera, non senza critiche a posizioni espresse da padre Messineo su La Civiltà Cattolica del 21 maggio 1955, per rivendicare ai cattolici l’iniziativa della pace, superando il timore di essere confusi con i comunisti “partigiani della pace”, dato che “la pace si fa coi nemici, non coi commensali”. “Se noi cattolici – scriveva Giordani, divenuto amico e ispiratore dei Focolarini – abbiamo un’idea di pace superiore e più vera che non quella degli atei, dobbiamo farla valere e non tenerla nei volumi, scritti magari in lingua morta”.
Interessante mi pare anche una lettera apparsa su Adesso del 15 settembre di quell’anno (ripresa dal Popolo di Milano) e scritta dal grande romanziere Luigi Santucci, che vedeva nel Comunicato dei Quattro Grandi del 24 luglio 1955 una prima conferma, a livello politico, dell’ostinata richiesta di pace del parroco di Bozzolo. Lo scrittore milanese definiva la sua canonica “il piccolo quartier generale della pace in Italia”, con don Primo divenuto “durante questi anni il cappellano della pace”, pur essendo ben consapevole che al tavolo di Ginevra sedeva un quinto invisibile “Grande”: la bomba H e che la speranza di quei giorni era fondata su “una pace negativa […], al di là di una guerra scontata nella sua assurdità annientatrice: non al di qua di un massacro evitato per amore di Cristo”.
La tromba dello Spirito Santo
Nonostante questi e altri riconoscimenti per don Primo, la nuova edizione del 1957 risultava ancora priva del suo nome e solo la terza, del 1965, usciva con la sua firma, a sei anni dalla morte, mentre ne sarebbero seguite varie altre, fino almeno alla dodicesima con la San Paolo. In compenso nel novembre 1957 il nuovo arcivescovo di Milano Giovanni Battista Montini lo invitava a predicare alla Grande Missione di Milano, mentre il 5 febbraio 1959 il nuovo Papa Giovanni XXIII lo riceveva, rivolgendosi a lui con l’esclamazione: “Ecco la tromba dello Spirito Santo in terra mantovana”. Qualche anno dopo, nell’aprile 1963, Papa Roncalli si sarebbe fatto eco di quella tromba, proclamando nella Pacem in terris (n. 67) che “in un’età che si vanta della forza atomica pensare che la guerra possa essere utilizzata per rivendicare diritti violati è irragionevole (alienum a ratione)”. Montini poi, divenuto Papa Paolo VI, dichiarerà a un gruppo di parrocchiani di Bozzolo ricevuti in udienza in Vaticano: “Non era sempre possibile condividere le sue posizioni: Don Primo camminava avanti un passo troppo lungo e, spesso, non gli si poteva tener dietro; e così ha sofferto lui e abbiamo sofferto noi. È il destino dei profeti” (A. Chiodi, a cura di, Mazzolari nella storia della Chiesa e della società italiana del Novecento, Paoline, Milano 2003, p. 17).
Forse Montini conosceva anche la decisa presa di posizione del suo ultimo editoriale La pace e le bombe, apparso su Adesso il 15 aprile 1959, a tre giorni dalla morte: “Non possiamo parteggiare per una pace che fa le rampe di lancio, fabbrica bombe atomiche per la difesa. […] La guerra arriva lo stesso senza aggressori, e ancor più implacabile perché tutti si difendono e la difesa pare che dia il diritto di essere feroci.[…] Non discutiamo le ragioni della difesa, né di questo né di quelli […]. Diciamo soltanto che la fatalità della guerra la fabbrichiamo così, credendoci onesti, paladini della giustizia, morendo per la giustizia. Tutti crociati. Non posso permettere che venga sterminata la mia gente e il mio popolo. Il busillis è qui: come superare la giustizia giuridica che fa perno sul dovere della difesa: “Se la vostra giustizia non sarà superiore a quella degli scribi e dei farisei, voi non entrerete nel regno dei cieli”.