Il terrore è islamico?
L’anno scorso ho partecipato, negli Stati Uniti, a una conferenza sulla sicurezza e l’informazione nella cosiddetta guerra al terrore. Ha destato la mia meraviglia il sentire uno dei partecipanti più combattivi esprimere esclusivamente disprezzo per la religione e affermare con decisione che i mezzi di comunicazione di massa non devono più riferirsi al “terrorismo islamico” come mero espediente puramente pratico. “È ovvio – ha detto – che le atrocità commesse non hanno niente a che fare con l’Islam.
Far credere alla gente il contrario non è semplicemente sbagliato ma è pericolosamente controproducente”. La retorica è un’arma potente in qualunque conflitto. Non possiamo sperare di convertire Osama bin Laden e di allontanarlo dalla sua ideologia di violenza. La nostra priorità deve essere quella di arrestare il flusso di giovani all’interno di organizzazioni come quella di al-Qaida piuttosto che alienarli con discorsi che associano la loro religione alla violenza immorale. Affermazioni errate sull’Islam hanno convinto troppi nel mondo musulmano che l’Occidente è un nemico implacabile. Tuttavia, non è facile trovare un modo alternativo per riferirsi a questo terrorismo: un tentativo in tale direzione può essere un esercizio salutare che rivela la complessità di quanto sta accadendo.
Cosa pensa l’Islam
Abbiamo bisogno di una espressione che definisca con più esattezza ciò che oggi va sotto il nome di “terrore islamico”. Questi atti terroristici possono essere commessi da persone che si dichiarano musulmane ma che violano i principi essenziali dell’Islamismo.
Il Corano vieta la guerra aggressiva, permette la guerra solo in caso di autodifesa e insiste nei veri valori islamici: la pace, la riconciliazione e il perdono. Stabilisce con fermezza che non ci devono essere violenze in questioni religiose e che per secoli l’Islam ha avuto un primato nella tolleranza religiosa di gran lunga maggiore di quello riscosso dal Cristianesimo. Come la Bibbia, il Corano ha una parte di testi ispirati alla violenza ma, come tutte le
Quindi, sebbene non tutti i musulmani siano riusciti a tener fede ai propri ideali – come accade d’altra parte ai cristiani o agli ebrei anche troppo spesso – certamente l’uso della violenza non pone le sue radici nella religione in quanto tale.
Noi raramente, per non dire mai, abbiamo definito gli attentati dinamitardi dell’IRA terrorismo “cattolico” perché siamo consapevoli che questa non è una campagna religiosa. Infatti, così come il movimento repubblicano irlandese, anche molti movimenti fondamentalisti diffusi a livello mondiale sono semplicemente nuove forme di nazionalismo dalle sembianze assolutamente non ortodosse. Questo è ovviamente il caso del fondamentalismo sionista in Israele e del Christian Right negli USA, un movimento ferventemente patriottico.
Nazionalismi e jiahad
Anche nel mondo islamico, dove l’ideologia nazionalista europea è sempre apparsa un “articolo d’importazione straniero”, i fondamentalismi trattano spesso più della ricerca di un’identità sociale e dell’autodefinizione nazionale che di religione. Essi rappresentano un desiderio diffuso di ritornare alle radici della propria cultura prima che questa sia invasa e indebolita dalle potenze coloniali. Dal momento che è sempre più riconosciuto che i terroristi non rappresentano in alcun modo l’Islam tradizionale, alcuni preferiscono chiamarli jihadisti, ma anche questa definizione non descri ve pienamente il fenomeno. Estremisti e politici privi di scrupoli hanno usato strumentalmente questa definizione per i propri fini. Il vero significato del jihad non è “guerra santa” ma “lotta” e “sforzo”. Ai musulmani viene comandato di tentare ogni sforzo su tutti i fronti – sociale, economico, intellettuale, etico e spirituale – per mettere in pratica la volontà di Dio.
A volte uno sforzo militare può essere una necessità riprovevole per difendere valori importanti, ma secondo la tradizione il profeta Maometto diceva dopo una vittoria militare: “Torniamo dal piccolo Jihad(la battaglia) e ritorniamo al grande Jihad” – cioè la lotta di gran lunga più importante, difficile e seria per rinnovare la nostra società e i nostri cuori. Jihadè quindi un valore spirituale importante che, per la maggior parte dei musulmani, non ha nessun collegamento con la violenza. Lo scorso anno, all’università del Kentucky, ho incontrato un giovane delizioso di nome Jihad.
I suoi genitori gli avevano dato quel nome con la speranza che sarebbe diventato non un guerriero santo, ma un uomo profondamente spirituale che avrebbe reso il mondo un posto migliore.
Quasi certamente, quindi, il termine terrorismo jihadiè offensivo e non conquisterà cuori o menti.
Wahhabismo
Molte persone preferiscono parlare di “terrorismo Wahhabita”. Alcuni hanno evidenziato che la maggior parte dei dirottatori dell’11 settembre proveniva dall’Arabia Saudita dove è diffusa una forma particolarmente intollerante di Islamismo, nota come Wahhabismo. Non condivido neanche questa definizione perché, anche se la visione di Wahhabismo (ristretta e spesso bigotta) rende il terreno fertile per l’estremismo, la vasta maggioranza dei Wahhabiti non commette atti di terrore.
Bin laden non è stato ispirato dal Wahhabismoma dagli scritti dell’ideologo egiziano Sayyid Qutb, che è stato giustiziato dal presidente Nasser nel 1966. Quasi ogni movimento fondamentalista nell’Islam sunnita è stato fortemente influenzato da Qutb, cosicché ci possono essere valide prove per definire la violenza commessa da alcuni suoi seguaci “ terrorismo Qutbiano”. Infatti, Qutb spinge i suoi seguaci ad abbandonare il barbarismo spirituale e morale della società moderna e a combatterlo fino alla morte.
Le popolazioni occidentali dovrebbero rendersi conto delle molte varietà di opinioni esistenti nel mondo islamico, drammaticamente diverse tra loro. Ci sono troppe ipotesi insensate e non verificate sull’Islam, che rischia di essere considerato come un’entità amorfa e monolitica. Osservazioni del tipo: “ Essi odiano la nostra libertà” non sono utili perché sono raramente accompagnate da un’analisi rigorosa di chi esattamente siano “essi”.
La storia di Qutb è anche istruttiva in quanto ricorda che la religiosità militante è spesso il prodotto di fattori sociali, economici e politici. Qutb è stato imprigionato per 15 anni in uno degli orribili campi di concentramento di Nasser, dove lui e migliaia di altri membri della Fratellanza musulmana sono stati sottoposti a torture fisiche e mentali. Era entrato nel campo da moderato, ma la prigione fece di lui un fondamentalista.
Il moderno secolarismo, sperimentato sotto Nasser, sembrava un grande male e un attacco letale alla fede. In qualunque conflitto è essenziale avere informazioni precise. È importante sapere chi sono i nostri nemici, ma ugualmente fondamentale è sapere chi essi non sono. È anche più indispensabile evitare di trasformare potenziali amici in nemici. Occorre fare lo sforzo di dare correttamente un nome ai nostri nemici. In tal modo impareremo molto su di loro e forse faremo passi avanti verso la risoluzione di problemi sempre più pericolosi e apparentemente intrattabili del nostro mondo diviso.