PAROLA A RISCHIO

Abdia un grido lungo 21 versetti

Nel più piccolo libro contenuto nella Bibbia la storia drammatica del dolore di un popolo sconfitto che attende salvezza solo dal suo Dio.

Tonio Dell’Olio

Visione di Abdia. Così dice il Signore Dio per Edom: Udimmo un messaggio da parte del Signore e un araldo è stato inviato fra le genti: “Alzatevi, marciamo contro Edom in battaglia” (1,1).
I pochi commentatori del libro del profeta Abdia esordiscono inevitabilmente con un riferimento esplicito, e a volte ironico, al suo record negativo: è il libro più piccolo di tutta la Bibbia. Solo 21 versetti. Tanto che definirlo un libro appare più un ossequio nei confronti della scelta di suddividere il testo biblico secondo questa unità di misura che il rispetto della realtà. 21 versetti sono pochi per raccontare una storia, per far cogliere in profondità il senso delle cose… eppure è in queste poche righe che il profeta Abdia rimanda alla storia e alla fede dei suoi lettori il dolore e la speranza dell’Israele del suo tempo. Abdia è pertanto il minore dei profeti minori. Tanto basta per rendermelo simpatico.

Una storia drammatica
Erano i tempi infelici e quasi disperati dello smarrimento del sogno. Era il Il profeta Abdia. tempo in cui Gerusalemme veniva distrutta e si ergeva con prepotenza l’impero di Babilonia, che spadroneggiava riducendo in schiavitù gli Israeliti e il loro orgoglio di popolo prescelto. Erano tempi in cui non si poteva cantare i cantici di Sion in terra straniera e si attendeva un intervento del Dio di Israele a difesa della sua stessa proprietà. Tempi talmente difficili che alcuni Israeliti arrivavano persino a bussare alle porte dell’Idumea per trovare salvezza. Gli Edomiti (abitanti dell’Idumea) secondo la tradizione erano i cugini dei Giudei in quanto discendenti di quell’Esaù (peloso) detto anche Edom (il rosso) che per un piatto di lenticchie vendette la primogenitura a Giacobbe, il progenitore dei Giudei: Per la carneficina e la violenza contro Giacobbe tuo fratello la vergogna ti coprirà e sarai sterminato per sempre (10). Storici nemici che pertanto non soccorrono il popolo giudeo, ma addirittura approfittano del momento di debolezza per occupare i territori a sud di Gerusalemme. Abdia pronuncia un oracolo di fuoco per conto di Jahvè contro Edom e le sue malefatte intravedendo imminente il giorno del Signore che finalmente farà giustizia nella storia. Se le cose stanno così ci sarebbe quasi da chiedersi che ci sta a fare un libro così nella Bibbia e invece sono molte le provocazioni per una riflessione che ci dica di Dio e degli uomini, dei destini della storia e della vita…

Un Dio che si prende cura
Visione di Abdia. Così dice il Signore Dio per Edom: Udimmo un messaggio da parte del Signore e un araldo è stato inviato fra le genti: “Alzatevi, marciamo contro Edom in battaglia”. Ancora una volta Dio rivela la preoccupazione per il suo popolo. Ancora una volta non rimane indifferente. La storia e la vita di Dio e del suo popolo non sono due parallele (cielo e terra) destinate a non incontrarsi mai. Al contrario si impastano fino a confondersi l’una nell’altra. Dio ha a cuore le sorti della sua gente. Sembra quasi di ascoltare i famosi versetti dell’Esodo, poesia e musica scaturite come acqua di sorgente dalle labbra di Dio: “Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti; conosco infatti le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dalla mano dell’Egitto e per farlo uscire da questo paese verso un paese bello e spazioso, verso un paese dove scorre latte e miele” (Es 3,7-8). È un Dio che “scende” il nostro Dio. Ieri come oggi il colore del sangue sparso sulla terra promessa non sfugge agli occhi di Dio. Non vi è ingiustizia di cui non avverta il disgusto, violenza di cui non colga il dolore inflitto, l’offesa recata, il sogno spezzato. È un Dio che accompagna e libera, un Dio che fa udire la sua voce e vedere la sua azione. Per questo Abdia, dopo aver augurato ogni male possibile contro Edom, punta tutto sulla fedeltà di Dio e sulla sua capacità di rendere giustizia nella storia. In lui solo, pertanto, è giusto confidare e porre ogni attesa.

Caro Abdia,
il livore delle tue parole sono una santa rabbia contro l’ingiustizia e la prepotenza. Le tue parole emergono dal profondo dell’indignazione che non ammette e non tollera il trionfo degli oppressori. Chissà se dai salotti dei nostri “appartamenti” riusciamo a comprendere le ragioni della rabbia! Chissà se il narcotico che ci viene propinato quotidianamente a dosi massicce ci rende consapevoli che la tua rabbia affonda le radici nelle piaghe aperte della gente delle tue città e dei tuoi villaggi e non in un’ideologia asettica senza volto e senza respiro. Il vero dramma dei nostri tempi è che non riusciamo più neppure a indignarci, a esprimere la rabbia verso un’economia che condanna a morte migliaia di persone e una politica che modula la propria agenda su priorità risibili di fronte al bene sommo della vita.
Il fetore della guerra non è cambiato. È da voltastomaco. Piuttosto sono cambiati i nostri stomaci. Troppo grassi da potersi distrarre con le discariche dell’umanità. Piuttosto quel fetore arriva alle nostre narici filtrato da uno spot “umanitario” che magari invita ad acquietare la coscienza con un sms da inviare in beneficenza! Se così non fosse, avremmo gole arse per aver protestato contro l’ingiustizia per cui i 500 uomini più ricchi del pianeta – , secondo l’ultimo rapporto UNDP (Agenzia ONU per lo Sviluppo) –, guadagnano da soli più di quel che riescono a mettere insieme 460 milioni di persone povere.
Dallo stesso rapporto sappiamo che “ogni ora muoiono 1.200 bambini. È l’equivalente di tre Tsunami al mese, tutti i mesi”. Le cause di morte possono variare, ma la schiacciante maggioranza può essere riportata a una singola patologia: la povertà. Diversamente dagli Tsunami, questa patologia si può prevenire. Se la politica non mette al primo posto la sconfitta di questo cancro di cosa deve occuparsi? La verità dei dati ci dice purtroppo che ad ogni dollaro speso in aiuti ai Paesi poveri corrispondono 10 dollari spesi in armamenti.
Nello stesso rapporto si fa notare che il “desiderio” di accaparrarsi le risorse minerarie e naturali della Repubblica democratica del Congo ha “alimentato” il conflitto uccidendo quasi tre milioni e mezzo di persone. Eppure noi non siamo rapiti come te dal moto di rabbia. Vediamo morire e non reagiamo. Sentiamo rombi di guerra e non tremiamo. Almeno come credenti avremmo dovuto imparare dal Dio dell’udito fine a non voltare la testa dall’altra parte, a soccorrere impastando la nostra storia con quella dei poveri. Invece restiamo muti e inermi come se il mondo non andasse oltre lo zerbino della porta blindata del nostro… appartamento.
Se preghiera allora dobbiamo rivolgere al Dio della vita e della storia è quella di insinuare nelle nostre coscienze una sana inquietudine per la verità, di contaminarci col seme fecondo della rabbia verso l’ingiustizia, di farci sentire sulla pelle la sofferenza degli altri anche se sono lontani e non ne conosciamo il nome, la cultura, il sogno. La tua cultura impregnata di armature e di eserciti ti fa concludere con la conquista del nemico: “Saliranno vittoriosi sul monte Sion per governare il monte di Esaù e il regno sarà del Signore” (21).
A ben guardare però, questo finale rimette ogni cosa nelle mani di Dio. Il suo regno è una comunità in cui la dignità è riconosciuta e la verità ricercata. Nel regno del Signore governano la giustizia e il diritto e per questo a tutti è assicurato il necessario. Gesù Cristo ci ha rivelato un regno in cui la parola chiave è beatitudine. Dei poveri e degli affamati, dei cercatori di giustizia e dei fabbricanti di pace, dei misericordiosi e dei nonviolenti. Se solo avessimo compreso con tutta l’anima questo desiderio di Dio, avremmo notti insonni fino al suo compimento. Fino al giorno in cui beatitudine, ovvero felicità, sarà per ogni donna e per ogni uomo, per ogni bimbo e per ogni creatura.
Caro Abdia, ispira anche in noi 21 poveri versetti di rabbia perché in essi la terra e il cielo riconoscano l’alba della felicità vera, declinazione eterna delle beatitudini che abitano la vita di ciascuno e mai solo di pochi.

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