Mare in lotta
Un mare nel quale esistono dei conflitti sempre più gravi. Ecco cosa è oggi il Mediterraneo.
La prospettiva mediterranea è talora un’ipotesi totalmente suicida. Non credo
realmente che per il Mezzogiorno d’Italia possa esistere una prospettiva forte di riscatto senza pensarlo in chiave globale, geopolitica, senza pensarlo cioè non solo entro i confini dello Stato nazionale, ma anche come parte di un mondo che attraversa gli Stati nazionali per andare al di là di essi.
Gran parte di quella che è definita l’emarginazione del Sud viene da lontano. Occorre ripensare il Sud Italia in una prospettiva ampia, che non può essere giocata esclusivamente dentro i temi classici – pur nobili e importanti del meridionalismo – ma deve essere pensata in chiave molto più vasta.
Mare in lotta
Affrontare il problema del Sud significa allargare lo sguardo, guardare aldilà non solo del nostro Paese in senso stretto e anche oltre la letteratura stessa, che sin ora si è occupata del Sud.
È in questa prospettiva che si può parlare di Mediterraneo. Occorre partire dalla constatazione che lo scacchiere entro cui si gioca la partita oggi è internazionale. In tale ottica si può interpretare il nome stesso del Mediterraneo come un mare in lotta contro tutti i fondamentalismi. Non solo contro quello che normalmente assume questa definizione, ma contro tutti i fondamentalismi. Pensare a tutti i fondamentalismi in ugual modo è un’operazione molto complicata che in pochi fanno. La maggior parte invece preferisce identificare il fondamentalismo con qualcosa che riguarda le altre culture, le altre religioni, gli altri popoli. Questo è un aspetto essenziale. Non si può
È autore di numerosi libri tra cui si segnalano: Il pensiero meridiano (Laterza, 1996), Approssimazione. Esercizi di esperienza dell'altro (Il Mulino, 1989), Peninsula (Laterza, 2000), Modernizzare stanca. Perdere tempo, guadagnare tempo (Il Mulino, 2001), Homo civicus. La ragionevole follia dei beni comuni (Dedalo, 2004).
Per parlare correttamente del Mediterraneo occorre smontare alcuni luoghi comuni su di esso. In primo luogo, quello secondo cui il Mediterraneo è “la culla della civiltà”. Pur generalizzando e credendo solo in modo parziale a queste semplificazioni, progressivamente l’asse della storia del mondo si è spostata dal Mediterraneo verso Nord, e per la precisione verso Nord-Ovest. Il mondo di oggi è il mondo dei grandi oceani, è il mondo della globalizzazione. In questo contesto, il Mediterraneo che cosa è? Un laghetto marginale, non ha un particolare significato.
È luogo di conflitto, un mare tutt’altro che tranquillo. È un mare nel quale naviga la flotta degli Stati Uniti. È un mare di conflitti. Oggi il Mediterraneo è realmente un punto nevralgico perché è il punto nel quale il Nord-Ovest del mondo si incontra con il Sud-Est del mondo. E qui molto più qui che altrove. Su questo mare si giocano grandi partite. Perché se il Sud Italia diventa terra di confine nella quale si devono contenere immigranti o costruire attrezzature militari o paramilitari, rimarrà una periferia sfibrata. Contro questa prospettiva è non solo l’interesse del Sud, ma l’interesse del nostro Paese e dell’Europa stessa.
Se dovessi descrivere il rapporto tra il nostro Paese e il Mediterraneo, penserei al ponte. L’Italia è un continente unico che parte dal cuore settentrionale dell’Europa e arriva quasi a toccare l’Africa. L’Italia è fondamentalmente “ponte”. E questo è molto importante dal punto di vista della comprensione storica di ciò che noi siamo e della nostra lunga storia. Proprio una lunga storia. Non si può pensare l’Italia soltanto in relazione all’Europa.
Gran parte della sua storia è precedente e va ricostruita. La sua rimozione è un delitto, culturale in primo luogo e poi storiografico. Per la sua posizione, le sue caratteristiche, le sue coste basse, non può pensarsi come fortezza. Perché pensarsi come fortezza significherebbe dover murare tutte le spiagge dell’Adriatico e di buona parte del Tirreno.
L’Italia è un Paese esposto agli arrivi, alle invasioni e la sua storia è intrisa di tali avvenimenti. Non si può rimuovere una parte della storia per mera presunzione di contemporaneità. Gran parte della cultura dell’Occidente moderno nasce dalla Grecia e si espande in Sicilia, Calabria, Puglia. È una grande avventura che incomincia con la civiltà greca. Ma la nostra storia sarebbe impossibile da pensare senza Roma.
Non più ventriloqui
L’Italia è un’idea di umanità larga, un’idea di pace che non può essere custodita con un apparato di sicurezza militare. Non è possibile, è un paradosso. O la pace è larga, o è ecumenica, oppure non è. Grazie al
Il Kitab-i bahriye contiene la descrizione e la raffigurazione di buona parte dei Paesi costieri affacciati sul Mediterraneo. È stato tramandato in due stesure databili intorno al 1521 e al 1526. Il testo integrale, che correda quest’importante lavoro che documenta i movimenti avvenuti nel Mediterraneo, non è mai stato tradotto integralmente in italiano.
“[...] La consuetudine per buona parte del Cinquecento la riproduceva (la penisola italiana, ndr) secondo l’uso arabo, con il Sud in alto, obbediva allo scopo di appiattire il retroterra continentale e di esaltare la vocazione marittima della regione italiana e il suo ruolo di frontiera di collegamento con l’Africa... la rappresentazione capovolta dell’Italia e del Mare Tirreno riflette la più suggestiva rappresentazione del mondo mediterraneo dell’epoca, immaginato come una immensa distesa disseminata di città e di pianure liquide solcate da velieri e soggetta ad una Italia naturalmente protesa verso i Paesi africani”.
A. Ventura, L’Italia di Piri Re’is. La cartografia turca alla corte di Solimano il magnifico.
Il nostro Paese ha parlato con voce propria solo fin quando il Mediterraneo ha avuto un grande ruolo. Dopo di che in buona misura gli altri ci hanno usato più come ventriloqui. La nostra voce si è ridotta, spenta. Non abbiamo avuto più voce per parlare. La grande cultura italiana è legata a questo lungo arco di tempo, a forme diverse di universalismo, della filosofia, del pensiero romano, della Chiesa, dell’arte e quello anche forte di idea di politica molto larga.
È questa la chiave con cui dobbiamo pensare il futuro. Potremmo costruire un futuro fecondo di idee soltanto nella misura in cui sapremo inserire in un grande concerto di voci anche qualcosa che non tradisca questa storia, che la sappia rinnovare, ricostruire e riproporre.
Peninsula è il titolo di un mio libro, significativo a questo proposito. Perché l’Italia è quasi un’isola. Una penisola appunto. In questa sua qualità, in questa sua irriducibilità a una sola identità intravedo la straordinaria forza del nostro modo di poter parlare agli altri.
L’Italia e il Sud possono giocare un ruolo molto importante nel tentare di far crescere un’Europa che non è una “non ancora America”. C’è un annegamento delle differenze nel “non ancora”, perché si pone qualcosa/qualcuno come punto di arrivo e tutte le altre/gli altri divengono solo qualcosa/qualcuno che non è ancora diventato il punto di arrivo. È il modo attraverso il quale la differenza dell’altro diventa una gerarchizzazione: tu sei “non ancora me”, tu diventerai me e quindi affidati a me. E credo che questo riguardi il Sud: il Sud non è un “non ancora Nord”, l’Italia non è un “non ancora Europa”, e l’Europa non è un “non ancora America”. Il problema è quello di riuscire a pensare l’autonomia di queste figure e di pensarle in un modo ricco e complesso. Perché questa è la partita fondamentale che si gioca quando si parla di Europa e di Mediterraneo.
Un’Europa che concepisca se stessa soltanto come copia affannata e ritardata degli Stati Uniti è un’Europa che ha deciso di rinunziare a una parte decisiva della sua identità, non necessariamente costituita del primato dei valori che caratterizzano fondamentalmente la civiltà anglosassone e americana. Credo che la civiltà protestante abbia avuto un grande ruolo nella civiltà moderna; è impossibile pensare la modernità, anche le sue grandi conquiste, senza la riforma protestante.
Credo che in una cultura in cui si pensi che il successo sia un segno di elezione divina, come ci ha insegnato Max Weber, protestante luterano, rende incompatibile il discorso della montagna secondo cui gli ultimi diventeranno i primi. In Europa si è costruito e si deve mirare a costruire ancora una dimensione di equilibrio molto più ricca, in cui non ci sia egemonia di una sola voce capace di imporre alle altre i suoi tempi e i suoi ritmi. L’Europa è la voce luterana, la voce cattolica e anche la voce del cristianesimo orientale, che non può essere ridotto a una congerie di incomprensibili irrazionalità. Questo è uno dei pilastri dell’Europa irriducibile a un unico modello. Questo dato non è meramente religioso, ma attiene al rapporto di tensione tra individuo e persona e tra individuo e comunità, tra libertà ed eguaglianza. Credo che questo sia un elemento di straordinaria importanza.
La strada del dialogo
In questo senso è mediazione, perché deve essere capace di produrre qualcosa che tenga insieme una molteplicità di anime. Per fare questo essa ha assolutamente bisogno di non dimenticare il Sud e il Mediterraneo. Se l’Europa ha un ruolo, è quello di sottrarre il rapporto tra le civiltà al destino del conflitto. Essa ha
strumenti che può attingere fondamentalmente anche dalla sua tradizione che le deriva dal Mediterraneo per poter costruire un rapporto con il suo Sud, con il suo Est. È interessante che alcune figure, in genere tutte cristiane, abbiano pensato di andare a Est, in Palestina per esempio, per cercare un momento in cui ripensare a se stessi. Penso a Dossetti, a Martini… Questo vuol dire probabilmente che è molto difficile pensare una comunità di tutti gli uomini senza andare negli stessi luoghi, pensare all’unità nel punto massimo di divisione. Come mettere insieme diverse culture e civiltà? In primo luogo con il dialogo. Mi viene in mente un dibattito particolarmente attuale, quello sul relativismo: se si intende per relativismo la spinta al dialogo tra le civiltà, il riconoscimento della dignità dell’altro, io sono relativista. Questo non penso sia relativismo perché l’apertura all’altro è il massimo di tensione etica. Esattamente il contrario del relativismo. Forse sono molto più cinicamente relativisti quelli che stanno dentro un’identità, vivono piombati e fanno i custodi dell’ortodossia di questa identità. Perché essi non fanno che riprodurre una macchina che in qualche modo li precede e che essi portano avanti. Questo atteggiamento è qualcosa di profondamente subalterno e forse proprio nichilistico. Si ritrova invece un grande slancio etico attraverso l’autorelativizzazione che non vuol dire mettersi da parte, ma arricchirsi, aggiungere una dimensione riflessiva alla propria cultura, all’etica e alla capacità di andare oltre lo Stato. Si può pensare seriamente la storia quando ci si mura in questa idea che il nostro unico destino è produrre una prosecuzione di quello che viene prima di noi? Se così avesse fatto il falegname palestinese, avrebbe dovuto scegliere solo tra il potere imperiale e l’ortodossia religiosa. Lui invece ha fatto un altro gioco. Perché noi non possiamo pensare che viviamo in un tempo in cui è necessario costruire un ulteriore gioco e che questo ulteriore gioco possa venire proprio dal dialogo con gli altri e con la capacità di rompere la demonizzazione della cultura altrui? La prima demonizzazione è quella che assegna tutti i popoli a una gerarchia nella quale il vertice è dato da chi è più sviluppato. È tutt’altro che una costruzione neutrale.