Mercato e basta
Non welfare né convivenza sociale. La parola ai mercanti. Ai mercati.
Liberi, se possibile.
“L’economia europea resisterà o cadrà a seconda della sua capacità di mantenere aperti i propri mercati o di aprirne altri e di sviluppare nuove aree nelle quali gli investitori e gli imprenditori possano fare commercio”. Il commissario europeo al Commercio, Peter Mandelson, sembra avere le idee chiare: per tenere in piedi l’Europa nella tempesta del mercato globale c’è bisogno di libero commercio. Mandelson ammette, stando alla dichiarazione che ha presentato al Simposio sull’accesso al mercato che si è tenuto a Bruxelles a fine settembre scorso, che da quando è stata proclamata l’agenda di Lisbona, il cuore politico del processo di unificazione, “il tasso di crescita della produttività europea è in declino. Un modello sociale che provoca come effetto venti milioni di persone disoccupate – sancisce – , e più di dieci milioni in età da lavoro non può essere giudicato come un modello sociale di successo”.
E allora si cambia: c’è bisogno di vero sviluppo, non appesantito da un’idea di welfare e di convivenza globale che fino a oggi, sempre secondo Mandelson, non ha funzionato. Molti i punti all’ordine del giorno dell’assemblea ministeriale dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, convocata a Hong Kong il 13 dicembre. Protagonista l’“Agenda di sviluppo”: un piano di
Dichiarazione Ministeriale di Doha: è stata uno dei principali risultati della Conferenza Ministeriale che si è svolta a Doha nel novembre del 2001. Essa stabilisce il quadro generale e il mandato per avviare nuovi negoziati su vari temi, la maggioranza dei quali fanno parte dell’impegno unico nell’ambito dell’agenda di Doha per lo Sviluppo. Assieme al rilancio dei negoziati su agricoltura e del commercio dei servizi la Dichiarazione ha stabilito il mandato per avviare nuovi negoziati con l’obiettivo di ampliare la liberalizzazione internazionale su diverse questioni relative e l’accesso ai mercati.
Agenda dello sviluppo di Doha. Si riferisce al pacchetto di negoziati, contenuto nella dichiarazione finale di Doha, stabiliti per aumentare il livello di liberalizzazione commerciale tra i Paesi della WTO. Definito durante la IV conferenza ministeriale di Doha del novembre 2001, l’Agenda è tuttora oggetto di trattative tra i Paesi membri.
(Fonte: Nuovo glossario WTO e commercio internazionale, http://www.tradewatch.it)
Quale sviluppo?
Nel frattempo negli ultimi mesi si sono moltiplicate le analisi che, in ambito ONU, hanno rivelato che il re è nudo, e che in questo round ci saranno vincitori e vinti. L’UNEP (UN Environment Program) in un rapporto appena pubblicato con alcuni casi-studio su prodotti agricoli “sensibili” per alcuni PVS (Paesi in Via di Sviluppo, ndr), denuncia che l’Agenda della WTO in discussione in vista della ministeriale di Hong Kong “è difficile che faccia fiorire nuovi mercati, in particolare agricoli, per le nazioni più povere senza che questo avvenga a spese dell’ambiente naturale”.
L’UNEP denuncia che i principali “vincitori” della liberalizzazione dei mercati sono gli importatori, I produttori medi e di grande scala, mentre i “perdenti” sono per lo più i produttori locali e i piccoli agricoltori, il cui reddito è sceso in picchiata. L’UNEP chiarisce anche che i consumatori possono risultare perdenti anch’essi in molti casi, perché la riduzione dei prezzi ai produttori progressiva e drastica non ha alcun riflesso sui costi finali di alcuni prodotti, oppure è la qualità a risentirne. Abbiamo bisogno di regole multilaterali che ci consentano il rispetto del fondamentale diritto di ciascun Paese a sviluppare politiche economiche, industriali e sociali che alimentino uno sviluppo sostenibile o una decrescita e riorganizzazione dei modelli produttivi che creino lavoro dignitoso proteggendo le risorse e i beni comuni e promuovendo, al tempo stesso, una tutela proattiva dell’ambiente e del tessuto sociale. Diversamente non riusciremo che ad alimentare una crescita illimitata, ma estremamente eterogenea. Nei Paesi più poveri la quota di popolazione al di sotto della soglia della povertà estrema, dal 1950 a oggi, si è dimezzata passando dal 50% al 24% del totale. Ma la riduzione è molto diseguale. Il divario del reddito pro capite, tra le 20 più ricche economie e le 20 più povere, dal 1960 a oggi è aumentato da 15 a 30 volte. Il Pil pro-capite, fra il 1965 e il 1998 è cresciuto annualmente del 5,7% nell’Asia orientale, del 2,3% nei Paesi OCSE, dello 0,2% nel Medio Oriente e del -0,3% in Africa, secondo la Banca Mondiale. E la tendenza, in questi ultimi anni, si è addirittura rafforzata.
Riprendiamo la parola
“Il commercio dovrebbe costituire un fattore rilevante per conseguire lo sviluppo e creare lavoro dignitoso, tuttavia rispetto a questi obiettivi per molti lavoratori il sistema del commercio internazionale o non ha alcuna rilevanza, o, fatto ancor più negativo, ne compromette il raggiungimento. Tanto nei Paesi in via di sviluppo che nei Paesi industrializzati l’agricoltura, la sicurezza del posto di lavoro e livelli di esistenza dignitosi sembrano minacciati e non favoriti da pratiche commerciali inique, mentre le imprese transnazionali agitano la minaccia della delocalizzazione delle produzioni in quelle aree dove sono negati i diritti dei lavoratori e la mano d’opera è a buon mercato. Centinaia di milioni di lavoratori hanno perso qualsiasi fiducia nel sistema del commercio internazionale: i Governi sono obbligati ad affrontare questa situazione, a Hong Kong e dopo Hong Kong”. Il Global Unions Group – che riunisce la CISL Internazionale, il Comitato Consultivo dei Sindacati presso l’OCSE e le 10 Federazioni Sindacali Globali insieme alla Confederazione Mondiale del Lavoro e alla Confederazione Europea dei Sindacati – ha sottoscritto una dichiarazione congiunta in vista della ministeriale della WTO di Hong Kong che lancia un ventaglio di segnali d’attenzione, ma anche un preciso programma d’azione che mette al centro i diritti umani e dei lavoratori come chiave di volta di un sistema di regole tutto da ripensare.
Anche Our World is Not For Sale (Questo mondo non è in vendita) – la coalizione internazionale che da prima di Seattle unisce movimenti sociali, ONG, contadini, forze sindacali e organizzazioni umanitarie ed equosolidali di tutto il mondo nello sforzo di sostenere una piattaforma politica internazionale diversa e più giusta per tutti – sta raggiungendo una nuova posizione comune di proposta in vista della ministeriale di Hong Kong. La Campagna chiede, proprio come le Global Unions, che si riaffermi il diritto fondamentale di ciascun Paese di utilizzare uno spazio politico autonomo per “accrescere le capacità dei propri settori produttivi, in particolare le piccole e le medie imprese”, configurandole all’interno di un piano sociale e ambientale coerente, che non abbandoni i più poveri al proprio destino. L’apertura dei mercati, secondo la Piattaforma, non deve affidare le economie locali all’unico referente delle imprese transnazionali, senza occuparsi di come lo sviluppo locale, le leggi del lavoro degli standard di sicurezza e di salute pubblica di lavoratori e consumatori, oltre all’ambiente, vengano modificati, indeboliti o, addirittura, negati.
Ma perché questi interessi generali prevalgano sugli affari di pochi è necessario unire le forze, in particolare come gruppi che guardano all’Europa come proprio spazio politico naturale. L’Europa, infatti, è la patria di oltre 100 tra le più imponenti imprese transnazionali che operano a livello globale. Solo a Bruxelles, per rappresentare interessi collettivi in forma professionale
Tradewatch, l’Osservatorio sull’economia e il commercio internazionale nato dall’esperienza italiana della Campagna Questo Mondo Non è In Vendita, dalla ministeriale di Cancun ha fornito in questi anni un aggiornamento costante sui negoziati commerciali, un supporto formativo per categorie e movimenti, alcune proposte pratiche di impegno e di sensibilizzazione su temi caldi come la liberalizzazione dei servizi, l’annunciata crisi del tessile, e cercherà anche da Hong Kong di aprire spazi di informazione e proposta per tutti i soggetti sociali che vorranno condividere un pezzo di strada insieme.