Deo Madre
Nuove letture bibliche per superare l’idea di un dio maschio.
Elizabeth Johnson è uno dei nomi più noti di quella che viene genericamente definita “teologia femminista”, un vasto e variegato ambito di ricerca teorica che si è sviluppato, a partire dagli Stati Uniti, intorno agli anni Settanta. L’assunto di fondo è molto semplice: rivedere dal punto di vista delle donne non solo i testi sacri, ma tutto quanto è stato prodotto nel tempo in termini di analisi e di esegesi per smascherare i pregiudizi nascosti. Ne deriva una critica radicale che ha nel tempo investito tutti gli ambiti teorici e anche, sul piano pratico, le strutture delle varie Chiese: dalle figure femminili del Vecchio e Nuovo Testamento ai fondamenti dottrinali, agli apparati ecclesiali. Ormai il quadro è così ricco che le stesse protagoniste, considerando – a differenza di quanto fa la mentalità maschile – positiva per tutte la dialettica, parlano di “teologie femministe”: anche le barriere interconfessionali cadono facilmente e il lavoro comune tra protestanti e cattoliche – nel quale Elizabeth Johnson è, da parte cattolica, una delle più impegnate – è un dato del tutto acquisito. Alla fase della critica segue quella attiva della costruzione di nuove letture dei temi tradizionali o della progettazione ideale di strutture e forme di aggregazione fondate sulla libertà e sull’uguaglianza.
La rilettura delle teologhe femministe ha coinvolto anche la figura di Cristo e il concetto stesso di Dio del quale è stata sottolineata la valenza materna da evidenziare accanto a quella tradizionale di Padre. Proprio su questi temi ha lavorato in particolare Elizabeth Johnson analizzando l’identificazione tradizionale tra l’uomo-Gesù, il Logos maschile e il concetto di un Dio Padre maschio. Il problema nasce quando l’identità maschile di Gesù, che appartiene alla sua figura storica, viene assunta come un elemento costitutivo anche della sua funzione di Redentore, perché allora la sua immagine funziona come strumento di subordinazione delle donne. In due suoi recenti libri tradotti in italiano per la Queriniana la teologa americana ha elaborato il nuovo concetto di “Deo”. L’abbiamo incontrata a Roma, in occasione della sua partecipazione a un Convegno organizzato dal Marianum sul tema della “compassione” nella riflessione mariologica, per parlare con lei di violenza. Quest’ultima indiscutibilmente è consueta e quotidiana modalità di relazione sociale e interpersonale. Da Parigi a Locri.
Come viene affrontato dalla teologia femminista il tema della pace?
La teologia femminista mette al centro del suo approccio teorico e metodologico l’analisi delle strutture di potere. È evidente che quando è l’immaginazione di stampo patriarcale a organizzare queste strutture, saranno messi in evidenza determinati valori, e uno di questi è senz’altro la violenza. Non sto dicendo
E.J.
Quale è stata, in questi ambiti, la reazione all’11 settembre? Rispetto al regime talebano, una parte della teologia femminista ha giustificato l’invasione in Afghanistan. Noi auspichiamo che la nonviolenza possa essere praticata come strada privilegiata per raggiungere la risoluzione dei conflitti o per garantire a tutti i diritti essenziali…
Negli Stati Uniti le teologhe femministe, e le donne in genere, hanno cominciato a chiedersi. “Perché gli Stati Uniti sono un obiettivo da colpire?”. E sono arrivate a un’analisi critica del capitalismo americano, cogliendone il suo aspetto aggressivo. Ma quel giorno non ci sono state solo vittime americane: 68 nazioni hanno avuto i loro morti e il compianto per tante vite umane perse è stato fortissimo.
C’era poi un altro elemento problematico. Il regime talebano aveva oppresso le donne in un modo terribile, intollerabile, in tutti gli aspetti della loro vita, dalla salute all’educazione, al mondo del lavoro, alla sfera personale e familiare. Così, quando il governo americano ha deciso l’invasione dell’Afghanistan, il femminismo americano l’ha accolta in modo non negativo, vedendo nel rovesciamento di quel regime una speranza per le donne. C’è stato un forte impegno in loro favore, molte sono anche partite per aiutare nella costruzione di strutture sanitarie e per riavviare l’educazione. Sono andate anche molte operatrici per lavorare nel campo dell’assistenza ai parti, dato il tasso di mortalità elevatissimo.
In Iraq continuano a uccidersi… In nome di una mancata democrazia, di un regime talebano che opprime e che va spodestato. Da persona accanto alle donne che vivono oppresse da tali governi, come consideri la violenza di una guerra?
Non si vedeva nessuna “buona ragione” per l’invasione in Iraq, anzi sembrava evidente che ci sarebbe stato un numero elevato di vittime civili, donne e bambini in particolare. Così l’opposizione è stata decisa in tutto l’ambito femminista, sia laico che religioso. Abbiamo lavorato per la pace ciascuna nel proprio ambito, abbiamo sempre aderito alle manifestazioni di protesta, cercando in particolare di aprire gli occhi alla gente sulle bugie diffuse dal Presidente a proposito dell’Iraq. Ricordo in particolare la grandissima dimostrazione del 15 febbraio a New York: in un clima gelido, c’era per le strade un milione di persone. Io ero lì, con molti studenti e docenti di Fordham. C’erano anche numerosi esponenti della Chiesa cattolica, tra cui diversi vescovi.
Qual è oggi l’impatto della teologia femminista negli Stati Uniti? Gli studi e la produzione intellettuale, sempre molto attivi, hanno lasciato un’impronta in ambiti più ampi?
C’è poi un altro elemento che consente alle singole teologhe, che continuano a lavorare individualmente, di non sentirsi isolate. Ci sono molti movimenti che da varie angolature si occupano dei diritti delle donne nelle Chiese e questi creano una rete che le sostiene. Molte riflessioni prodotte in questo ambito sono ormai oggetto di un dibattito ampio anche a livello di base. Tra questi va ricordata soprattutto l’apertura al sacerdozio femminile, che è al centro dell’azione della Women Ordination Conference e del movimento Future Church (la Chiesa del futuro). Entrambi promuovono, tra l’altro, una rilettura e rivalutazione della figura di Maria Maddalena come prima testimone della Resurrezione per tutti i cristiani, una figura di donna fedele fino all’ultimo, quando tutti i discepoli maschi si erano defilati. Un’altra forte spinta continua a venire dalle ricerche sul tema “donna e Parola” e sulla predicazione femminile, altri temi molto sentiti. Ad esempio, lo scorso aprile la Diocesi di Seattle ha organizzato un convegno di due giorni sul tema “donne e ministero”. La partecipazione ha superato ogni previsione: sono arrivate più di 5000 donne, che hanno partecipato alle conferenze, ai seminari, ai dibattiti, agli spettacoli con grande entusiasmo. Il raduno si teneva nel Centro Conferenze della città, che è uno spazio grandissimo e stare tutte insieme è stata un’esperienza molto bella. Il titolo, che era “Un giorno di speranza”, si è rivelato davvero appropriato. In questa sede i temi della pace sono stati molto presenti: tra gli organizzatori c’era anche il Centro Intercomunitario Giustizia e Pace.