Dio parla a ciascuno di noi
È la grande protagonista dei documenti conciliari. E della vita dei cristiani.
Quando ci interroghiamo sul tema della coscienza nel Concilio Vaticano II, ci rendiamo conto di molti riferimenti, in particolare nella Costituzione pastorale su La Chiesa nel mondo contemporaneo (Gaudium et spes) e nella Dichiarazione su La libertà religiosa (Dignitatis humanae).
Direi, però, che prima ancora dobbiamo rilevare che la radice di questa attenzione sta nella decisione di papa Giovanni XXIII di fare di questa assemblea non un Concilio “dogmatico”, come tutti i precedenti Concili, tesi a precisare e definire i “dogmi”, le verità da credere (scomunicando - anathema sit - quanti non le accettassero o le modificassero, bensì un Concilio “pastorale”, teso cioè a presentare le verità di sempre in modo adeguato alle donne e agli uomini di oggi. Ovviamente questo non solo impegnava a ritrovare nella Tradizione della Chiesa le formule più comprensibili e più in sintonia con una mentalità più sensibile agli aspetti e alle responsabilità personali, ma induceva a puntualizzare come la coscienza risulti la realtà determinante degli aspetti più profondi e vitali della vita umana, quindi anche della vita religiosa, e come, nell’impegno a renderla “retta”, cioè oggettiva, corrispondente alla verità delle cose e delle persone, a impregnarla di quanto la Rivelazione offre come garanzia di “rettitudine”, essa diventi il luogo dell’incontro autentico con Dio.
Rileggendo le Costituzioni
Ce ne rendiamo conto già guardando alle quattro Costituzioni che sono – come in ogni Concilio – i documenti più importanti anche di questa assemblea. La Costituzione su “La Parola di Dio” (Dei Verbum) ci porta, appunto, a vedere la fede prima ancora che come la precisazione delle verità credute, come l’atteggiamento di adesione personale a Dio che ce le rivela: attraverso la Parola che Dio rivolge alla comunità (da quella del popolo ebraico a quella della Chiesa), Dio parla a ciascuno di noi, e nella coscienza di ciascuno si stabilisce questo dialogo di chiamata e di risposta, in cui consiste la fede.
Anche la Costituzione su “La Liturgia” (Sacrosanctum Concilium) ci fa passare da una pietà basata sulla fiducia in ciò che si compie attraverso il celebrante (a cui si “assiste”), all’unione con Cristo presente e operante nei segni sacramentali (a cui si “partecipa”), facendo così della Liturgia il momento più alto e l’alimento più efficace (“culmine e sorgente”) della vita della Chiesa e della vita dei cristiani. La Chiesa stessa (Lumen Gentium) viene vista non come un esercito schierato sotto la guida della gerarchia, bensì come l’assemblea di quanti “coscientemente” aderiscono a Cristo profeta, sacerdote e pastore, impegnandosi a prolungarne la realtà e i compiti nel mondo di oggi, certo garantiti da chi ha il compito di assicurare il contatto con la Parola e con il mistero di Cristo e di alimentare la comunione tra i membri della Chiesa, così come (Gaudium et spes) di rivendicare in nome di Cristo la dignità di ogni essere umano e di ogni popolo e di farsi annunciatore e operatore di solidarietà e di pace.
Un appello ai laici
È al di dentro di questa cornice vitale che le singole posizioni e affermazioni acquistano il loro significato più profondo e la loro efficacia. Basterebbe scorrere un indice analitico dei testi del Concilio, alla parola “coscienza” per venire avviati a trattazioni esaurienti.
La Gaudium et spes (al n. 16) ce ne dà una definizione: “La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità propria… Nella fedeltà alla coscienza i cristiani si uniscono agli altri uomini per cercare la verità e per risolvere secondo verità tanti problemi morali, che sorgono tanto nella vita dei singoli quanto in quella sociale”. Più avanti (n. 17) precisa che “l’uomo può volgersi al bene soltanto nella libertà, quella libertà cui i nostri contemporanei tanto tengono e che ardentemente cercano”. E dopo aver precisato che essa non autorizza “tutto quel che piace”, afferma che “la dignità dell’uomo richiede che egli agisca secondo scelte consapevoli e libere, mosso cioè e indotto da convinzioni personali, e non per un cieco impulso interno o per mera coazione esterna”.
Più avanti (n. 26) rileva che “cresce la coscienza della esimia dignità della persona umana, superiore a tutte le cose, e i cui diritti e doveri sono universali e inviolabili. Occorre perciò che siano rese accessibili all’uomo tutte quelle cose che sono necessarie a condurre una vita veramente umana”, tra cui “il diritto… alla possibilità di agire secondo il retto dettame della sua coscienza”.
Di questi sviluppi il Concilio tratta ovviamente nella Dichiarazione su “La libertà religiosa”: “Gli imperativi della legge divina l’uomo li coglie e li riconosce attraverso la sua coscienza: la quale è tenuto a seguire fedelmente in ogni sua attività. Non si deve quindi costringerlo ad agire contro la sua coscienza. E non si deve neppure impedirgli di agire in conformità ad essa, soprattutto in campo religioso” (n. 3).
È singolare (e significativo) che questo richiamo alla coscienza venga fatto in modo particolare ai laici, appunto nel Decreto sull’apostolato dei laici (Apostolicam actuositatem n. 5). Questo afferma: “I laici dunque, svolgendo la missione della Chiesa, esercitano il loro apostolato nella Chiesa e nel mondo, nell’ordine spirituale e in quello temporale… Nell’uno e nell’altro ordine il laico, che è simultaneamente fedele e cittadino, deve continuamente farsi guidare dalla sua unica coscienza cristiana”. Questa “viva coscienza della loro responsabilità di fronte al mondo” viene richiamata a “tutti i figli della Chiesa” (Decreto sull’attività missionaria della Chiesa – Ad gentes, n. 36), di cui “il primo e principale dovere, in ordine alla diffusione della fede, è quello di vivere una vita profondamente cristiana”.
Per questo ripetutamente e in vari luoghi il Concilio fa appello all’educazione della coscienza, dall’ambito familiare e sociale (per la procreazione – Gaudium et spes 50 e 87 – per la scuola – Dichiarazione su l’educazione cristiana, Gravissimum educationis, n. 6 – nella convergenza di tutti i mezzi di cui dispone oggi la società – Gaudium et spes n. 31). Ed è in questa prospettiva di rispetto e di promozione della coscienza che si è avuta anche la assoluta novità dell’obiezione di coscienza al servizio militare (Gaudium et spes n. 79).
Il cammino continua
L’accenno è fatto nella trattazione del tema della pace, una trattazione contrastata da chi (come i Cardinali Feltin di Parigi e Alfrink di Utrecht, l’uno primo Presidente internazionale di Pax Christi, l’altro in procinto di sostituirlo) voleva una condanna assoluta della guerra (e si arrivò solo alla condanna della “guerra totale”, come allora veniva chiamata la guerra con uso di bombe atomiche – n. 80 – e della corsa agli armamenti – “è una delle piaghe più gravi dell’umanità e danneggia in modo intollerabile i poveri”), e chi invece, come il Card. Spellman Arcivescovo di New York e Ordinario militare degli USA, supplicava di “non pugnalare alle spalle i nostri giovani che in Estremo Oriente – cioè in Vietnam – stan difendendo la civiltà cristiana!”.
E così, nel n. 79, pur bilanciandola con l’affermazione che “coloro che, al servizio della patria, esercitano la loro professione nelle file dell’esercito, si considerino anch’essi come ministri della sicurezza e della libertà dei loro popoli e, se rettamente adempiono il loro dovere, concorrono anch’essi veramente alla stabilità della pace”, il Concilio arriverà a stabilire che “sembra inoltre conforme a equità che le leggi provvedano umanamente al caso di coloro che, per motivi di coscienza, ricusano l’uso delle armi, mentre tuttavia accettano qualche altra forma di servizio della comunità umana”.
L’apertura sembra timida, e sarà poi sviluppata da documenti successivi (l’Enciclica “Populorum progressio” del 1967 a considerarla “buona” e il Sinodo del vescovi del 1972 a valutarla più coerente col Vangelo), ma intanto la riflessione e l’impegno s’erano avviati e il primato della coscienza aveva avuto una nuova, significativa consacrazione.
È anche da osservare che questo richiamo al valore della coscienza non è stato molto sviluppato dopo il Concilio. Lo hanno fatto alcuni studiosi – primo fra tutti il redentorista P. Häring - ma è scontato che si trattava di una accentuazione non solo nuova ma problematica; è più immediato, infatti, valutare gli atteggiamenti esteriori che non la loro radice interiore. Forse è più facile lasciare questo giudizio a Dio – e, come si diceva, al “foro interno”, cioè al rapporto personale con Dio – e puntare inevitabilmente sugli atteggiamenti operativi, che sono fra l’altro il costitutivo della vita sociale, anche di quella religiosa.
Il cammino per altro continua, da una maggiore illustrazione di quanto si opera per una crescita delle coscienze e delle responsabilità, al rispetto delle coscienze formate in modo diverso, quindi all’ecumenismo e al dialogo interreligioso, fino al riconoscimento di un pluralismo culturale, fonte di crescita reciproca e sfida per la pace.