Navigatori a vista?
Luogo privilegiato di rielaborazione morale.
Quali rischi nella società plurale?
La situazione è effettivamente complessa. Qualche anno fa il filosofo Franco Volpi ne descriveva così i contorni: “Il panorama delle teorie etiche contemporanee offre uno spettacolo babelico. La confusione regna sovrana, [...] il turista curioso potrebbe passeggiare all’infinito nel giardino-mercato delle etiche. [...] Nel mondo governato dalla scienza e dalla tecnica l’efficacia degli imperativi morali sembra quella di freni da bicicletta montati su jumbo jet. [...] Il nichilismo ci ha trasmesso effettivamente un insegnamento corrosivo e inquietante, ma al tempo stesso profondo e coerente. Ci ha insegnato che noi non abbiamo più una prospettiva privilegiata, non la religione né il mito, non l’arte né la metafisica, non la politica né la morale e nemmeno la scienza in grado di parlare per tutte le altre; che non disponiamo più di un punto archimedeo, facendo leva sul quale potremmo di nuovo dare un nome all’intero. [...] Il nichilismo ci ha dato la consapevolezza che noi moderni siamo senza radici, che stiamo navigando a vista negli arcipelaghi della vita, del mondo, della storia; perché nel disincanto non v’è bussola che orienti, non vi sono più rotte, percorsi, misurazioni pregresse utilizzabili, né mete prestabilite a cui approdare”.
È la fotografia di una realtà diffusa, di fronte alla quale Italo Mancini aveva parlato, non senza accenti critici, di un uomo ridotto a “rizoma”, senza radici né fusto, senza memoria del passato e senza capacità di futuro. Un pensiero che sarebbe dunque “debole”, poiché privilegia le categorie del soggetto e rimane diffidente di fronte all’affermazione di categorie “oggettive”, alle quali semplicemente la persona dovrebbe aderire.
Dalla morale all’etica
Di qui il nuovo carattere dell’etica contemporanea che, sostiene Paul Valadier, tende ad articolarsi prima di tutto come un’etica dei casi concreti: “La morale non è morta, ma se le preoccupazioni morali riemergono ciò accade, assai stranamente, di primo acchito, attraverso la necessità di risolvere casi o di trovare soluzioni di cui nessuno sembra detenere con certezza la chiave. [...] Si scopre così che il caso di coscienza costituisce il luogo stesso del giudizio morale. Impone di rispondere senza indugio perché ne va della vita di un ammalato, della sicurezza di un cittadino, dell’avvenire di una impresa. Non si può differire eternamente, perché, se così si può dire, i valori in gioco non attendono e il tempo rischia di provocare effetti irreversibili... [...] Vi è un’esigenza morale in quanto gli attori scoprono che essi devono agire piuttosto che abbandonarsi al corso delle cose, a meno di lasciare trionfare la morte, la violenza o la rovina. L’estrema gravità della decisione appare, ancora e soprattutto, perché in quelle circostanze, certamente eccezionali ma assai tipiche nel mondo contemporaneo, è raro che un solo valore si imponga sotto la forma dell’imperativo categorico. L’attore, al contrario, è combattuto fra due esigenze contraddittorie e ciascuna impone di essere seguita. [...] L’oggettivismo morale [...] si rende incapace di affrontare i casi drammatici sollevati dall’attualità storica. [...] L’oggettivismo è incapace di fare opera realmente morale: questa non consiste nell’essere in regola con delle norme, ma nel lavorare alla moralizzazione (all’umanizzazione) dell’uomo a partire dalla sua condizione concreta e con il fine di aiutarlo ad aprirsi sempre più al bene, operando pazientemente per metterlo in grado di rispettare, alla fine, la norma ricercata. Lavoro di pazienza e di compromesso [...], poiché il compromesso è il terreno stesso della pratica morale. Ma scartando il compromesso si confessa di rigettare la storicità dell’uomo e la sua finitezza. [...] ” .
Il passo è emblematico poiché indica, con lucidità, le ragioni della riscoperta del valore della coscienza. Proprio la mole e la natura delle nuove questioni di carattere etico spinge gli uomini del nostro tempo a riscoprire il valore della coscienza come luogo della decisione, e a percepire l’insufficienza di una prospettiva morale – sia essa fondata su imperativi categorici di natura razionale, sia definita al contrario a partire da una norma oggettiva fondata teologicamente – che pretenda di fornire risposte oggettive valide per sempre in tutti i casi. Anzi, secondo Valadier proprio l’incapacità dell’oggettivismo di fare “opera realmente morale” è una delle ragioni della riscoperta della coscienza come luogo di rielaborazione morale. Questa contrapposizione fra un oggettivismo morale inflessibile, che alla fine rischia di essere incapace di aprire l’uomo a quel bene che pretende di tutelare, e un’etica che di fronte all’enormità delle sfide punta invece sulla coscienza e sulla responsabilità personale, rappresenta oggi uno dei caratteri più vistosi della questione etica contemporanea. Ed è proprio la natura delle questioni etiche a porci con maggiore chiarezza di fronte a questo dilemma, di fronte al quale non è possibile ondeggiare a lungo nell’indecisione: la crescente complessità, la percezione che in molte questioni etiche è in gioco la natura stessa dell’uomo, la constatazione che sempre più spesso il giudizio etico deve muoversi fra soluzioni comunque problematiche, la percezione che nella complessità assumono un ruolo centrale la creatività etica, o per dirla ancora con Valadier “l’inventiva e l’audacia”, la consapevolezza che ripetere automaticamente vecchie ricette o vecchie abitudini può condurre addirittura a soluzioni eticamente discutibili, tutto ciò ci impone non solo di riflettere, ma anche di decidere la prospettiva dalla quale partire per avvicinare l’emergere di una nuova, estremamente complessa, questione morale.
Chi resta saldo?
La posta in gioco non è solo la fedeltà a dei precetti, ma la visione dell’uomo, della sua capacità di discernimento, della sua libertà, in breve della legittimità e delle strutture della sua vita responsabile, di cui egli stesso, in una prospettiva di fede, dovrà rendere conto a Dio. In questo senso, l’affermazione del teologo Heinrich Fries, secondo il quale negli ultimi decenni inesorabilmente “il principio speranza è molto impallidito a favore del più intenso principio responsabilità”, investe la questione antropologica nel suo complesso, e non solo un suo aspetto.
Senza la pretesa di esaurire la questione, qualche considerazione conclusiva.
È chiaro che un’esaltazione della coscienza che non tenga conto della problematicità del dilemma etico attuale contiene sempre il rischio di scivolare in posizioni che esasperano le esigenze del soggetto. Scomparsi i grandi orizzonti di riferimento, le cosiddette metanarrazioni, è facile, ci ricordava Lyotard, interpretare la centralità della coscienza come possibilità di ridurre il problema della verità a ciò che il soggetto pone come tale. In altre parole c’è il rischio che in un contesto nel quale ognuno sperimenta di essere, per usare un’espressione di Engelhardt, “straniero morale” rispetto agli altri, si affermi l’idea che la verità coincide con ciò che la persona “sente” come vero: questo può condurre a una morale “sentimentalistica”, per ciò stesso continuamente in movimento, “liquida” direbbe Baumann, e quindi incapace di fondare fedeltà durature, alle persone come agli ideali. La libertà di coscienza può sconfinare qui nel puro arbitrio, negando il fatto che la coscienza porta sempre con sé il richiamo a una realtà altra (che sia l’alterità dell’altro o quella di Dio) rispetto all’individuo. Questa tendenza è visibile nelle personalità patchwork così diffuse nel nostro tempo, fatte di appartenenze mutevoli e giustapposte, e incapaci di dare senso a una vita vissuta all’insegna della stabilità e dell’unicità. Ne deriva spesso un’esistenza in cui all’accentuazione esasperata della coscienza quale luogo di decisione corrisponde una grande fragilità sul piano della fedeltà, alle persone come agli ideali.
La domanda di Bonhoeffer, “chi resta saldo?”, formulata in un tempo drammatico di violenza, appare in questo senso ancora attuale, poiché una mal interpretata libertà della coscienza può paradossalmente condurre alla formazione di personalità alla fine deboli e flessibili, e soprattutto incapaci di qualsiasi giudizio critico nei confronti del reale.
Tuttavia, e questa è la sfida, la riscoperta centralità della coscienza non può essere interpretata unicamente come minaccia alla verità. Esiste oggi la diffusa tentazione di leggere la situazione attuale unicamente alla luce del relativismo, offrendo spesso come via d’uscita la salda dottrina, le cui norme sono lì, semplicemente in attesa di essere passivamente accolte da uomini perennemente minorenni. Il problema è che l’adesione acritica a una norma esterna non è meno rischiosa di una esasperata soggettivizzazione della morale. Essa può infatti condurre a disconoscere il valore stesso della coscienza, che non può essere ridotta a passiva accoglienza di un codice, ma che rappresenta al contrario il luogo principe in cui si fonda la libertà umana, che va esercitata di fronte a Dio e di fronte agli uomini.
Una lettura riduttiva della coscienza, che guardi con diffidenza al mondo e all’autonomia dell’uomo, riducendola magari all’interno di teologie a domanda e risposta, finisce per ammutolire la coscienza che, se non aderisce a un codice, irrimediabilmente è nell’errore. Il rischio, qui, è quello di rinforzare una visione passiva della coscienza, cui non resta come unico compito che quello di accettare senza troppo interrogarsi. Ma questo finisce per essere un misconoscimento della struttura dialogica della coscienza, luogo di incontro e sacrario di dialogo autentico e intimissimo fra l’uomo e Dio, luogo di discernimento morale, luogo in cui si sperimenta la dimensione imperativa del comandamento dell’amore.