ARMI

Preparati, disarmati

Leggere per incidere. Per costruire un mondo in cui le armi siano messe al bando. Un viaggio nelle novità editoriali sulla produzione e il commercio delle armi.
Giorgio Beretta

Ce n’era bisogno. Era dagli inizi degli anni Novanta che mancavano in Italia pubblicazioni organiche e aggiornate sulla produzione e il commercio di armi del nostro Paese. A sopperire alla carenza sono arrivati negli ultimi anni due studi di tutto rilievo che non possono mancare nella biblioteca non solo degli “addetti ai lavori”, ma di chiunque intenda documentarsi in materia.

Armi italiane
Il primo, in ordine cronologico di pubblicazione, è Il commercio delle armi. L’Italia nel contesto internazionale. Il corposo volume di 390 pagine, curato da Chiara Bonaiuti e Achille Lodovisi, due ricercatori dell’Osservatorio sul Commercio delle Armi (Os.C.Ar.) dell’Istitituto di Ricerche Economiche e Sociali (IRES) Toscana edito da Jaca Book nel 2004, sebbene sia presentato nella forma di un semplice “Annuario” non solo fa il punto della situazione attuale su produzione ed esportazioni di armi italiane, ma fa risalire l’analisi fin al primo dopoguerra e, soprattutto agli anni Settanta e Ottanta (cap. 2).
È in quel periodo, infatti, che l’Italia assurge al ruolo di uno dei maggiori esportatori mondiali di armi: “Nel 1978 l’export raddoppia passando dai 380 milioni di dollari del 1977 a 775 milioni di dollari e nel 1981 si produce un nuovo raddoppio a quota 1 miliardo e 400 milioni di dollari, pari al 3,2% del mercato mondiale, che colloca l’Italia al sesto posto nella graduatoria mondiale degli esportatori” – scrivono Terreri e Bonaiuti (p. 25).
Un vero boom di esportazioni – notano i ricercatori – che si fonda su alcune condizioni favorevoli: una normativa permissiva senza vincoli e controlli, l’intervento pubblico nell’industria militare e il nuovo grande mercato dei Paesi in via di sviluppo tra cui alcune “aree calde” del pianeta come Iraq, Iran, Libia, Egitto e Nigeria che, oltre a essere i principali acquirenti di armi “made in Italy”, sono anche i principali fornitori di greggio del nostro Paese. Sono gli anni in cui “oltre un terzo delle esportazioni italiane di armi arriva a Paesi in guerra” (p. 34), ma anche degli scandali delle esportazioni militari a svariate nazioni, tra cui l’Iran, per mezzo di triangolazioni che vengono denunciate da numerose associazioni pacifiste tra cui quelle che presidiavano il porto di Talamone dal quale le armi salpavano.
Lo scenario cambia a partire dal 1990 con l’approvazione della legge 185 che, da allora, regolamenta l’esportazione di armi italiane: una legge che, per diversi aspetti, anticipa il dibattito a livello europeo, che culminerà a fine anni novanta con l’adozione di un Codice di Condotta dell’UE (alla cui disamina è dedicato l’intero capitolo 6 del volume). Ma al cambiamento contribuisce anche, sul piano nazionale, la crisi delle partecipazioni statali, principale propulsore dell’industria militare italiana, e sul piano internazionale il crollo dei Paesi del Patto di Varsavia e la crisi economico-finanziaria internazionale con l’acuirsi del debito estero dei Paesi del Sud del mondo.
Il volume ripercorre quegli anni fino al 2003, comparando anche le numerose fonti (cap. 1), analizzando il commercio internazionale di armi (documentatissimo al riguardo il saggio di Lodovisi al cap. 3 che supera le 180 pagine), la spesa militare italiana (cap. 4 di M. C. Zadra) a partire dalla riforma delle Forze armate nella seconda metà degli anni Novanta – che passa dai 9,5 miliardi di euro del 1995 agli oltre 14 miliardi del 2004 – fino all’analisi della spesa militare internazionale (cap. 5 di Lodovisi) con sintetiche finestre sulle diverse aree geo-politiche, e all’attualissima questione delle “armi di distruzione di massa” presenti nel Vicino Oriente (cap. 7 di Lodovisi). A buona ragione si può affermare che l’Annuario colma, con la sua base statistica e documentale, una lacuna esistente a livello italiano, allineando finalmente il nostro Paese agli altri europei, in cui vengono pubblicati rapporti scientifici annuali sui temi delle armi e del disarmo.
Se una critica si può muovere all’Annuario di Os.C.Ar. è quella di considerare le questioni nazionali e internazionali lasciando quasi in secondo ordine il ruolo della società civile e delle associazioni: una carenza inevitabile per un annuario che, dopo un decennio, cerca di offrire al lettore un quadro sintetico e alla quale ci auguriamo sopperiranno le prossime edizioni.

La nostra società civile
Attento, invece, fin nel dettaglio cronachistico, al ruolo svolto dalla società civile e dalle diverse Campagne è l’altrettanto documentato volume di Riccardo Bagnato e Benedetta Verrini, due giovani giornalisti del settimanale “Vita – non profit magazine” dal titolo Armi d’Italia. Protagonisti e ombre di un made in Italy di successo (Fazi Editore, 2005). Un primo merito del volume, che si legge d’un fiato quasi come un reportage, è quello di non concentrarsi solamente sui “grossi sistemi militari di armi” – oggetto principale dell’analisi dell’Annuario di Os.C.Ar. – quanto anche sulle “armi leggere” (cap. 1) e alla questione delle mine antipersona e dello sminamento (cap. 2).
Ma i pregi del saggio sono molteplici. Oltre all’analisi sintetica dell’export italiano di armi dal dopoguerra a oggi, alla precisa ricostruzione della nascita della legge 185/90 e delle recentissime modifiche (cap. 3-6), gli autori dedicano l’intera seconda parte del volume a fare il punto su produzione e commercio delle armi prendendo in esame il ruolo dei diversi protagonisti in campo. Innanzitutto le aziende che fanno capo all’AIAD (l’Associazione Industrie per l’Aerospazio e la Difesa), “una sorta di Confidustria del settore Difesa” che impiega oltre 50 mila addetti con un fatturato di oltre 10 miliardi di euro l’anno (cap. 7 e 8), ma anche le Istituzioni, tra cui Parlamento e Governo, nel quale gli autori individuano, con realismo, una “saldatura” con l’industria bellica “che va oltre le strategie commerciali o le scelte politiche dei singoli governi” (p. 126). In modo diverso i vari Governi hanno infatti inteso favorire, oltre alla funzionalità dell’Esercito, la “competitività dell’industria italiana delle armi” fino alla recente pubblicizzazione di un flop tecnologico come l’Eurofighter (definito a E. Bonsignore su Pagine di Difesa una “sfiga” da 100 milioni di euro) facendolo competere in velocità con la Ferrari di Schumacher all’aeroporto militare di Grosseto.
Ma l’analisi dei protagonisti del “comparto della Difesa” si estende anche al ruolo delle banche (cap. 10) che non è solo quello di finanziare le aziende produttrici di armi, ma anche quello di favorirne l’esportazione, svolgendo funzioni di intermediazione che vanno da forme di fideiussione alla domiciliazione dei pagamenti, dai quali gli Istituti di credito ricavano sostanziosi “compensi di intermediazione”. Significativo, al riguardo, il ruolo della Campagna di pressione alle “banche armate” (promossa da Missione Oggi e Nigrizia oltre che da questo mensile) che gli autori, non a torto considerati i risultati ottenuti, definiscono “la più importante Campagna sui temi finanziari mai sviluppata in Italia” (p. 114).
Ma anche del ruolo del mondo sindacale, tra i protagonisti negli anni ottanta, che oggi su questi temi sta vivendo una “contraddizione” che lo vede ondulare tra la condivisione delle istanze del mondo pacifista e le serrate per la tutela del posto di lavoro, senza dimenticare le “pressioni politiche interne ed esterne affinché la presenza sindacale in alcuni comparti industriali (e in particolare quello armiero) sia per quanto possibile contenuta, controllata, se non del tutto annullata” (p. 150).
E, più in generale, al ruolo svolto dalla società civile organizzata (cap. 12), a partire dal movimento pacifista, ma anche dalla Chiesa, dal movimento altermondialista, dal Terzo settore, ai Centri di ricerca di diversa matrice ideologica e culturale. Di grande interesse anche l’ultimo capitolo che dedica uno sguardo non solo all’industria militare in Europa, ma anche alle Campagne che mirano a legislazioni più stringenti per quanto riguarda i mediatori e il commercio internazionale delle armi. Utilissimo l’appendice che riporta il testo di numerosi documenti tra cui il Codice di Condotta Europeo. Peccato, invece, che il volume proponga separatamente il testo della legge 185/90 e quello che la modifica, in alcune parti anche sostanzialmente, della 148/2003: l’accorpamento dei due testi – anche con caratteri distinti – avrebbe aiutato il lettore comprendere meglio la normativa vigente e le modifiche apportate.

Superiamo la frammentazione
Dall’epilogo del volume traggo una “provocazione” che propongo alla riflessione dei lettori. Trattando del ruolo “poco incisivo” a livello internazionale della società civile italiana in tema di armamenti, gli autori sottolineano tra le cause la “frammentazione numerica ed economica”: sono pochi i centri di ricerca e spesso basati sul volontarismo degli stessi ricercatori, sono troppe le organizzazioni non profit che hanno assunto un ruolo paraistituzionale “ingessando l’azione innovatrice delle stesse” ed è troppo “carsico e imprevedibile” il movimento altermondialista. È vero che la classe politica non sta meglio: le contraddizioni in materia a partire dal presidente Ciampi – strenuo europeista che, nonostante il reiterato divieto del Parlamento europeo all’export di armi alla Cina, dichiara a Pechino il favore dell’Italia a porre fine all’embargo – fino ai leader di Governo e dell’opposizione sono spesso impressionanti. Ma la questione della “poca incisività” delle associazioni della società civile italiana sui temi della produzione e del commercio delle armi va affrontata presto sia per dare una reale consistenza, anche finanziaria, ai Centri di ricerca nazionali, ma anche per favorire tutte le potenzialità della Rete Disarmo (http://www.disarmo.org), il network di oltre trenta associazioni che ha da poco iniziato a svolgere un compito di coordinamento non solo in ambito nazionale, ma europeo e internazionale.

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