Le ambiguità dell’“umanitario”
per la Giornata Mondiale della Pace 2006.
I Messaggi per la Giornata Mondiale della Pace continuano ad alimentare la costruzione di quella “grammatica della pace” che, per sostanziosità e organicità di contenuti, costituisce una vera e propria “summa”, ricca di verità teologiche ma anche di quelle verità pratiche che Jacques Maritain identificava coi diritti umani. Il Dna di questa costruzione pedagogica in costante sviluppo sta, naturalmente, nell’Evangelium pacis quale profeticamente contestualizzato, nell’attuale era in via di irreversibile globalizzazione, dall’enciclica “Pacem in Terris” del Beato Giovanni XXIII. In quest’ultima c’è tutto il ‘programma ordinamentale’, c’è per così dire lo hard per capire la sequela di Messaggi iniziata da Paolo VI e sviluppata da Giovanni Paolo II. Benedetto XVI non soltanto lo dice esplicitamente: “Nella scia di questo nobilissimo insegnamento si colloca il mio primo Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace”, ma risale ancor più a monte: cita San Benedetto, Patrono d’Europa, e Benedetto XV, il Papa che non esitò a bollare la prima guerra mondiale col marchio di “inutile strage”.
La verità vi farà liberi. A questa esortazione evangelica, che disarma e allo stesso tempo fortifica nella speranza, viene spontaneo aggiungerne un’altra: il vostro dire sia sì sì, no no. Credo, in tutta umiltà, che questo sia lo spirito più adatto per commentare il Messaggio di Benedetto XVI. Dunque, liberi anche di esplicitare ciò che nel documento pontificio è implicito e di avanzare qualche perplessità sull’enfasi data al tema dello “umanitario”.
Nel suo primo Messaggio, Papa Ratzinger attinge più volte alla Costituzione pastorale del Concilio Vaticano II “Gaudium et Spes”, innanzitutto per appellarsi alla “verità della pace”. Questo felice spunto mi porta a sottolineare che la “verità pratica” della pace coincide con il “bene della pace”, il quale comprende i diritti innati della persona, primo fra tutti il diritto alla “vita”: la eguale vita di tutti i membri della famiglia umana. Vita e pace costituiscono un binomio consustanziale, come tale inscindibile. Ne discende che non soltanto sottosviluppo e diseguaglianze, ma anche pena di morte e guerra vanno contro la verità e il bene della pace. Su questo tema, non ci possono essere doppi binari o doppie verità, pena l’ambiguo procrastinarsi di paludose realtà compromissorie.
Nel paragrafo 5 del suo Messaggio, Papa Ratzinger usa toni forti, con linguaggio apocalittico, per condannare la filosofia e la politica della menzogna. Dopo aver denunciato che “aberranti sistemi ideologici e politici hanno mistificato in modo programmato la verità e hanno condotto allo sfruttamento e alla soppressione di un numero impressionante di uomini e di donne, sterminando addirittura intere famiglie e comunità”, il Papa si fa interprete di una domanda diffusa: “Come non restare seriamente preoccupati, dopo tali esperienze, di fronte alle menzogne del nostro tempo, che fanno da cornice a minacciosi scenari di morte in non poche regioni del mondo?”. Viene qui spontaneo ricordare l’immagine vibrante di Giovanni Paolo II quando in Sicilia grida forte ai mafiosi: “Pentitevi! Verrà un giorno il Giudizio di Dio…” , e il monito “il male ha sempre un volto e un nome” contenuto nel suo ultimo Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace (1 gennaio 2005).
L’ammaestramento che se ne ricava è che a partire dalla denuncia del mysterium iniquitatis deve scattare la consapevolezza del diritto-dovere di dare “nome e volto” alla menzogna: la menzogna di chi crea il casus belli adducendo la presenza di armi di distruzione di massa dove non ci sono, la menzogna di chi spende Corano e Vecchio e Nuovo Testamento a fini di mistificazione, discriminazione, ‘martirii’ omicidi, guerra, la menzogna degli spacciatori di neo-liberismo che promettono il miracolo finale dello “star tutti bene”, la menzogna di chi pratica la tortura per motivi di sicurezza, la menzogna di chi usa le armi al fosforo per illuminare ‘meritorie’ operazioni di pace, la menzogna di chi pratica la pena di morte per la salvezza della società, la menzogna di chi non intraprende le vie alternative alla guerra – che pur ci sono, oggi, diversamente da ieri ! – adducendo ragioni di forza maggiore, la menzogna di chi dice “le Nazioni Unite facciano ciò che possono fare” ben sapendo che il poter fare dell’ONU dipende dalla volontà degli stati che ne sono membri a cominciare da quelli che siedono in permanenza nel Consiglio di Sicurezza, ecc.
Confesso che mi fa problema l’ampiezza del risalto dato a quanto contenuto nel paragrafo 7 del Messaggio di Papa Ratzinger: “il diritto internazionale umanitario è da annoverare tra le espressioni più felici ed efficaci delle esigenze che promanano dalla verità della pace”. Quale il senso dell’enfasi sul “Diritto internazionale umanitario”? Quale il senso della “convinzione che esiste, anche nella guerra, la verità della pace”? Mi si perdoni se oso dire che nella guerra, in quanto tale, non ci può mai essere verità di bene: c’è invece, nuda e cruda, la verità della guerra, cioè morte, distruzione, odio. Animus bellandi (spirito di guerra) e animus destruendi (spirito di distruzione) sono sinonimi. Certo, nell’esperienza della guerra può maturare la “conversione alla pace”. Ma non mi sentirei in coscienza di fare di questa eventuale provvidenzialità una caratteristica della guerra. Ci sono tante altre, meno pericolose occasioni di bene (opportunities).
Quanto al “Diritto internazionale umanitario”, occorre mettere in guardia dall’incombente pericolo che sull’ignoranza e la buona fede della gente comune - nell’immaginario popolare, “umanitario” e “diritti umani” sarebbero sinonimi - gli artefici della Realpolitk speculino per fini che con il genuinamente umanitario e coi diritti umani nulla hanno a che fare. Non c’è bisogno di sottolineare che negli ultimi quindici anni, con spudorata disinvoltura si sono dette e fatte “guerre umanitarie” e “guerre per i diritti umani”. Onde evitare strumentalizzazioni, inganno e menzogna, è pertanto indispensabile fornire gli opportuni chiarimenti di carattere tecnico-giuridico. Il “Diritto internazionale umanitario” è il cosiddetto ius in bello, cioè il diritto che si deve applicare nei conflitti bellici a tutela di persone e gruppi particolarmente vulnerabili, ma che non pone in discussione l’assunto che gli stati, in quanto sovrani, detengono lo ius ad bellum, il diritto di fare la guerra, come attributo essenziale della loro sovranità. La sua ispirazione – si pensi a Henry Dunant, fondatore della Croce Rossa – è certamente nobile e doverosa la sua applicazione nelle sciagurate contingenze belliche e affini, ma non si può tacere che esso costituisce un capitolo che si radica nel tradizionale Diritto delle sovranità statuali armate.
Diversa invece è la ratio del “Diritto internazionale dei diritti umani”, di quello Ius novum universale che ha a proprio fondamento il principio secondo cui “il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana, e dei loro diritti, eguali e inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo”. È quanto proclama la Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948, indicata dalla “Pacem in Terris” quale “segno dei tempi” insieme con l’Organizzazione delle Nazioni Unite. Per il vigente Diritto internazionale la dignità umana, non la sovranità degli stati, è posta a fondamento dell’ordine mondiale e di qualsiasi altro ordinamento. Il Diritto internazionale umanitario deve – purtroppo, ancora - essere applicato. Ma quando se ne parla, specie se in ottica educativa, occorre chiarire, contestualmente, che siamo entrati nell’era in cui, a partire dalla Carta delle Nazioni Unite, dalla Dichiarazione universale e dalle pertinenti Convenzioni giuridiche internazionali, vige un Diritto internazionale, quello appunto dei diritti umani, il quale supera il “diritto di/in guerra” e tende a renderne inutile l’applicazione. Del “nuovo” Diritto internazionale fanno tra l’altro parte la Convenzione che interdice la tortura e i Protocolli che vietano la pena di morte.
Ai sensi di questa normativa umanocentrica, pervasa di principi di etica universale, la guerra in quanto tale è ‘ripudiata’ e l’uso della forza militare è consentito, con la rigorosa e limitata eccezione della “autotutela successiva ad attacco armato di stato contro stato”, soltanto per fini di genuina polizia militare, dunque non per gli obiettivi omicidi che sono tipici della guerra e, sempre, sotto l’autorità sopranazionale delle Nazioni Unite. Taglia corto al riguardo quanto dispone l’articolo 20 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, entrato in vigore nel 1976 (in Italia nel 1977): “Qualsiasi propaganda a favore della guerra deve essere vietata dalla legge”. Mi chiedo: quanti conoscono l’esistenza di questo non ambiguo obbligo giuridico internazionale?
In conclusione, il Diritto internazionale umanitario, in quanto tale, non è il diritto della pace e per la pace. Non a caso, nei Corsi di laurea universitari in “relazioni internazionali e diritti umani” e materie affini, i due “Diritti” vengono impartiti in due distinti insegnamenti e sempre chiarendone la diversa ragione fondante. La Corte Penale Internazionale e i vari Tribunali Internazionali ad hoc sono tenuti ad applicare sia il Diritto internazionale umanitario (Convenzioni di Ginevra del 1949, Protocolli aggiuntivi del 1977) sia il Diritto internazionale dei diritti umani. Mi si obietterà che proprio in un periodo in cui si diffonde la barbarica violenza di reti terroristiche e bande criminali e la risposta degli stati più potenti si traduce in operazioni di vera e propria guerra, è opportuno, anzi doveroso segnalare che pur esiste un “capitolo” di Diritto internazionale che deve essere applicato in questi disgraziati frangenti. Naturalmente, non posso non convenire. Allo stesso tempo preciso che è altrettanto doveroso completare il quadro giuridico e politico di riferimento chiamando in causa il nuovo Diritto internazionale, che di guerra non ne vuole proprio sapere, che segna una tappa avanzata del cammino che coniuga insieme la civiltà del diritto e la civiltà dell’amore, che è un Diritto “primaziale”, sopraordinato a qualsiasi altro ordinamento, compreso il Diritto internazionale umanitario.
Chiarendo questi concetti a partire dal Messaggio pontificio, si aiutano le persone, in particolare i giovani, a usare discernimento: candidi come colombe, prudenti come serpenti. Specie se si considera, giova ripeterlo, che in questi ultimi anni taluni governi, a cominciare da quello della superpotenza - e dietro di questa, opportunisticamente, non pochi altri -, manifestano in parole ed opere la volontà di far sì che la guerra torni ad essere strumento fisiologico delle relazioni internazionali – da quella successiva a quella preventiva, da quella ‘pre-emptiva’ a quella protettiva -, insomma tirano a riappropriarsi di quel nefasto, perverso, diabolico ius ad bellum che la Carta delle Nazioni Unite e il Diritto internazionale dei diritti umani hanno loro sottratto. In altri termini, l’orgia di illegalità, quotidianamente perpetrata in guanti neri e in guanti bianchi, non si arresta con la elogiativa segnalazione del (solo) Diritto internazionale umanitario. “Nichilismo e fondamentalismo fanatico”, che Papa Ratzinger stigmatizza, guazzano alla grande dentro l’attuale contesto della illegalità, del riarmo, della menzogna spacciata per legalità. L’ambiguità dello “umanitario” fa comodo, oggi forse ancor più di ieri, ai signori della guerra, ai terroristi, ai torturatori, a quanti traggono profitto dalla “sospensione” di elementari garanzie costituzionali, agli specialisti della menzogna.
Questa elucidazione di verità giuridica, doverosa per la verità e il bene della pace, intende rafforzare quella importantissima parte del Messaggio pontificio che richiama tutti all’urgenza, alla responsabilità e al dovere di disarmare: “Quale avvenire di pace sarà mai possibile, se si continua a investire nella produzione di armi e nella ricerca applicata a svilupparne di nuove?”. Una prima risposta a caldo è che l’avvenire di pace è a rischio se non si ha il coraggio di denunciare apertis verbis che il riarmo, la collegata ricerca scientifica, il collegato disinvolto “parlar di guerra”, il rilancio del Diritto “del buon cuore in guerra”, sono in perfetta congruità con la strategia di riappropriazione dello ius ad bellum messa in atto da taluni governi. Per contrastare questa deriva occorre invece dare luce e priorità, nella gerarchia delle fonti giuridiche, al nuovo Diritto internazionale che, proprio per avere recepito principi di etica universale, sempre più risuona nella coscienza della gente comune, in particolare nei milioni di pacifisti che operano in associazioni e movimenti transnazionali, ed è oggetto di studio, di formazione e di addestramento in sempre più numerose università nei vari continenti.
La mia conclusione è che, oggi ancor più di prima, occorre ripetere, resistere, insistere opportune et inopportune, con le stesse parole di Benedetto XV, di Paolo VI, di Giovanni Paolo II: guerra inutile strage, mai più la guerra, guerra avventura senza ritorno, la guerra non è mai una fatalità.