Banche e armi: un bilancio a sei anni dalla Campagna

Giorgio Beretta
Fonte: Missione Oggi – gennaio 2006

Qual’è la situazione a sei anni dal lancio della Campagna di pressione alle “banche armate”? Al di là delle dichiarazioni, quali banche si stanno effettivamente “disarmando”? E chi sta prendendo il loro posto? Ed infine, qual’è la reazione del mondo politico e del Governo? Per cominciare a fare un bilancio della campagna è utile mettere a confronto due serie di dati: il periodo 1999-2001 e il triennio 2002-4. La suddivisione non è casuale: lanciate nel dicembre 1999, le proposte della Campagna hanno richiesto tempo agli Istituti bancari per essere recepite ed attuate ed è solo a partire dal 2002 che si possono cominciare a valutare gli effetti delle decisioni da loro intraprese.

Va notato innanzitutto che, nonostante le flessioni annuali, i valori totali delle autorizzazioni concesse dal Ministero dell’Economia e delle Finanze nei due trienni sono similari: si tratta di 2491 milioni di euro nel primo triennio e 2812 milioni nel secondo. Ma, mentre nel periodo 1999-01 cinque gruppi bancari italiani ricoprono la quasi totalità delle operazioni autorizzate, nel secondo i valori sono più smussati e le prime cinque banche coprono poco meno dei tre quarti delle licenze. Tre gruppi soprattutto si distinguono: Unicredit, Capitalia e Banca Intesa nel primo triennio e Capitalia, San Paolo Imi e BNL nel secondo.

Le principali banche nell’export di armi nel triennio 1999-2001
(vedi file allegato)

Le principali banche nell’export di armi nel triennio 2002-2004
(vedi file allegato)

Le principali “banche armate”

Pur mantenendo una percentuale pressoché simile nei due trienni (oltre il 25%) Capitalia passa da poco più di 613 milioni del primo triennio ai 724 milioni del secondo. Ma, mentre le operazioni del triennio 1999-2001 erano state autorizzate principalmente ad istituti di credito - come il Banco di Sicilia e Bipop Carire (470 milioni di euro) che proprio in quel periodo stavano confluendo nel gruppo capeggiato da Banca di Roma -, a partire dal 2002 è la capofila del gruppo a svolgere direttamente le maggiori operazioni. Impressiona soprattutto il valore dell’ultimo anno: oltre 396 milioni di euro per 107 autorizzazioni con paesi tra cui figurano Cina e Taiwan, India e Pakistan, Filippine, Cile, Ecuador, Messico, Egitto, Turchia, Kuwait, Malaysia, Emirati Arabi Uniti, Tunisia e Israele. Il Gruppo Capitalia afferma di aver deciso nell’aprile 2004 di "adottare nuovi e stringenti criteri che autolimitano l'assistenza finanziaria alle aziende esportatrici di armamenti": considerato che oggi è il principale attore nel settore, sarà di grande interesse vedere nei prossimi anni l’effetto di questa recente direttiva aziendale.

Discorso simile anche per il gruppo San Paolo Imi: mentre nel triennio 1999-2004 con poco più di 148 milioni di euro ricopriva solo il 6,1% delle operazioni autorizzate, nel triennio successivo l’istituto torinese ha assunto impegni per oltre 538 milioni ricoprendo da solo un quinto del totale. Stupisce, anche in questo caso, la cifra dell’ultimo anno (ben 366 milioni di euro) soprattutto considerando che il Bilancio sociale del 2002 impegnerebbe in gruppo ad un “codice interno di autodisciplina” e limiterebbe l’attività del gruppo “alle sole operazioni destinate a paesi dell'Unione Europea o della Nato e comunque caratterizzate, per la loro natura, unicamente da finalità di difesa o sicurezza”. Tra le autorizzazioni assunte dalla San Paolo figurano nel 2004 diversi paesi extra-Ue e Nato tra cui Cina, Singapore, India, Pakistan, Malaysia, Tailandia, Emirati Arabi Uniti, Marocco, Egitto, Brasile e Cile.

Seppur per valori inferiori, anche Banca Nazionale del Lavoro accresce nell’ultimo triennio il proprio share, portandolo dall’8,8% del 1999-01 al 10,5%. Va detto, però, che i valori più consistenti riguardano il biennio 2001-2, quando la banca ha assunto operazioni per oltre 241 milioni di euro, mentre negli ultimi due anni sono in diminuzione.

Chi si sta “disarmando”?

La tendenza si inverte nel caso di altri due gruppi che figurano tra i primi cinque del settore: Unicredit e Banca Intesa. Mentre nel triennio 1999-01 Unicredit con oltre 806 milioni di euro ricopriva un terzo delle autorizzazioni rilasciate, nel secondo triennio il gruppo capitanato da Alessandro Profumo riduce la propria partecipazione al 5,7%, con valori costantemente decrescenti a partire dal 2003. Sembra pertanto in atto la disposizione emessa già nel dicembre del 2000 che vede impegnato Unicredit a “non assumere più nuovi contratti di questo tipo”, mentre le operazioni effettuate riguardano, per la gran parte almeno, la conclusione di impegni presi in precedenza dal Credito Italiano.

Anche Banca Intesa, che nel periodo 1999-01, con oltre 452 milioni di euro di autorizzazioni ricopriva un ruolo di prim’ordine in questo settore (il 18,5%), a partire dal 2002 diminuisce la consistenza delle proprie operazioni al 6,7%. Significativo è soprattutto il valore dell’ultimo anno (solo 23,3 milioni di euro) a fronte dei quasi 190 milioni del 1999. Forse è presto per dichiarare l’effettivo disimpegno del gruppo dal settore: la decisione di una più stretta regolamentazione è, infatti, solo del marzo del 2004. Ma l’ultimo dato e, soprattutto, il passaggio della Cassa di risparmio della Spezia dal Gruppo Intesa alla Cassa di risparmio di Firenze, sembra andare nella direzione annunciata. La Cassa di Risparmio della Spezia è, infatti, la banca d’appoggio di numerose aziende militari spezzine tra cui OtoMelara del Gruppo Finmeccanica. Esce, invece, definitivamente dal commercio delle armi il Gruppo MPS che comunque ricopriva solo un ruolo secondario già nel triennio 1999-01.

Le new-entry delle armi

Se alcune banche hanno dichiarato di voler abbandonare – totalmente o in parte – la fornitura di servizi d’appoggio al commercio delle armi, se ne affacciano di nuove: è il caso, ad esempio della Banca Antoniana Veneta e della Banca Popolare di Milano. Con oltre 121 milioni di euro, Antonveneta si piazza al terzo posto nel 2004. Impressiona soprattutto l’elenco dei paesi coi quali ha in atto operazioni: seppur le maggiori autorizzazioni riguardino Belgio e Turchia, ve ne sono di consistenti anche con Pakistan e Siria, ed altre di valore inferiore con India e Malaysia.

Simile discorso, anche se per una cifra nettamente inferiore (53,4 milioni di euro), per la Banca Popolare di Milano (BPM). Una scelta, quella dell’istituto ambrosiano, che non ha mancato di suscitare rimostranze soprattutto da parte dei settori più attenti alla finanza etica: BMP, infatti, è socia di Banca Etica e partecipa alla compagine sociale di Etica sgr, la società di gestione del risparmio che promuove prodotti finanziari con un elevato profilo di trasparenza. Tra le 22 commesse per oltre 53 milioni di euro di cui, per esplicita ammissione, BPM è “domiciliataria di incassi/pagamenti” non figurano solo Francia e Namsa (l'Agenzia di supporto logistico della Nato), ma anche paesi altamente indebitati come Brasile, Messico e Pakistan, e seppur per valori minori, India, Marocco e Malaysia.

E le banche straniere?

Come segnalavo all’indomani della pubblicazione della Relazione governativa (si veda M.O. 5/2005), la decisione di “buona parte degli istituti bancari nazionali” di dotarsi di politiche di “responsabilità sociale d'impresa”, avrebbe comportato – a detta del Governo - “notevoli difficoltà operative”, per le industrie del settore tanto da “costringerle ad operare con banche non residenti in Italia”. L’analisi dei due trienni smentisce l’affermazione del Governo. Se è vero, infatti, che le banche estere vedono accrescere di molto il valore delle autorizzazioni rilasciate (che passa dai poco più di 183 milioni di euro del primo triennio agli oltre 439 milioni del secondo) è altrettanto vero che buona parte di queste operazioni sono da attribuirsi alle maxi-commesse effettuate da alcuni paesi dell’Unione Europea negli ultimi anni. È il caso, ad esempio, della fornitura del 2002 di blindati della OtoMelara alla Spagna i cui pagamenti sono stati autorizzati al Banco Bilbao Vizcaya Argentaria, tra l’altro socio di BNL.

La banca francese Société Générale ha svolto di fatto una sola operazione: l’incasso nel 2004 da parte della Malaysia di 70,1 milioni di euro per conto della Whitehead Alenia. Diversa è la megacommessa del 2004 della Calyon–Corporate an Investment Bank, il gruppo bancario francese nato dalla fusione nel maggio del 2004 tra Crédit Agricole Indosuez e la divisione investimenti del Crédit Lyonnais: è a questa banca, infatti, che viene affidata (non casualmente) l’autorizzazione di una fornitura alla Cina del valore di ben 121,2 milioni di euro. Più variegato, invece, il giro d’affari della Barclays Bank, il colosso basato in Gran Bretagna che svolge operazioni un po’ con tutti dalla Germania alla Francia, da Singapore alla Malaysia. Si tratta comunque, di gruppi bancari la cui sede principale è in una nazione dell’UE: non si capisce quindi perché il Governo debba lamentare come “più gravoso e a volte impossibile” il controllo finanziario delle operazioni previste dalla legge 185/90. Una domanda, quest’ultima, che non mancheremo di rivolgere ai rappresentati del Governo invitati al convegno del 14 gennaio prossimo.

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