Pacifismi

Guerre, eserciti, armi, diritto internazionale e… pacifisti
16 agosto 2006 - Giancarla Codrignani
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Dopo le divaricazioni interpretative sulla pace e sul pacifismo a proposito del rinnovo della prima missione italiana in Afganistan - e figuriamoci quando si tratterà di discutere la seconda, quella da "Enduring Freedom" - occorre rassegnarsi e continuare a usare la parola "pace" al singolare, ma per il "pacifismo" mettere d'obbligo il plurale. Vediamo un poco di ragionare insieme sulle diverse maniere di intendere, anche sulla scorta di quello che dicono amici di sempre come Lidia Menapace, Peppe Sini, Enrico Peyretti.

Intanto il termine pace. Fa parte degli astratti, come la libertà e la giustizia: più o meno tutti ci impegniamo per la loro attuazione, ben consapevoli che nell'anno di grazia 2006 dopo Cristo tentiamo realizzazioni che, pur graduali e selettive, non realizzano mai la pienezza della libertà e della giustizia. Anche perché non siamo ancora così globalizzati da capire che, mentre tutti nel mondo usano ragionare di giustizia e di libertà, non tutti vi attribuiscono né lo stesso senso né gli stessi contenuti.

La pace non è mai stata conosciuta dall'umanità, perché, da Adamo o dai cavernicoli, ci sono sempre state le violenze e la guerra. Molti europei e americani del nostro tempo credono di conoscerla perché hanno oggi esperienza marginale e non diretta delle guerre; ma nessun paese vive in pace se ce ne fossero anche solo due che si fanno guerra. Questa base di partenza di un ragionare sulla pace è semplicistico, anche se si vorrebbe che riscuotesse maggior attenzione. Serve infatti a prendere atto che di una vera pacificazione del mondo - e,dunque, di noi - non abbiamo esperienza alcuna. Siamo tuttavia in cammino e qualche positività, forse più di principio che di prassi, la si riscontra.

La guerra non ha più l'onore in cui era tenuta nei secoli passati. Il dovere militare non è più il requisito fondamentale dell'appartenenza a una comunità, la carriera militare non è più così brillante socialmente come appare dalle narrazioni fino a tutto il secolo XIX e l'obiezione di coscienza nei Paesi occidentali è un diritto e non un reato. La società si riconosce prima di tutto nell'essere comunità "civile" e i cives, i cittadini si riconoscono nella partecipazione, nella rappresentanza, nella trasparenza della politica dei propri governi. La democrazia non impedisce, tuttavia, che ci siano le guerre; al proprio interno si tratta di conflitti economici che producono vincitori e vinti di quel terreno di competizione che è il mercato, di conflitti amministrativi, di rapporti difficili fra pubblico e privato; anche le contese fra chi ha di più e chi ha di meno producono vittime. La guerra, tuttavia, è altra cosa. Nasce anch'essa da conflitti fra chi ha e chi non ha (gli stessi mezzi, la stessa terra, la stessa appartenenza, la stessa fede); tuttavia, in questi casi si sa che il conflitto arriva, prima o poi, alla violenza e alle armi. È un processo inevitabile e noto, noto soprattutto da chi, esterno e spesso non disinteressato, sta a guardare per prevedere il processo in relazione alle proprie convenienze. Spesso chi tiene per una parte ne favorisce le iniziative, fino a sostenerla con vendite d'armi e finanziamenti. Succede che per questa via anche altri vengano coinvolti nei processi violenti e il conflitto dilaghi. Non accade mai che i governi locali prevengano il degenerare di conflitti che, nati da cause conosciute, potrebbero trovare soluzione migliore (non solo per le vite umane da risparmiare, ma anche ai fini di interessi concreti) dalla composizione delle vertenze mediante trattative dirette. L'esperienza insegna che i partiti che sostengono cause contrapposte pensano di poter/dover vincere sul campo, secondo la tradizionale logica amico/nemico.

Ma nessuno, davanti ai pericoli e non solo davanti alle stragi, chiede l'intervento dell'ONU, che, essendo per definizione l'organismo sovranazionale che preserva la pace fra le nazioni, potrebbe conseguire qualche successo se la sua iniziativa fosse preventiva e non contestata da poteri egemoni.

Tuttavia sono la violenza e la sua espressione più diretta, la guerra, con tutti i suoi apparati, che hanno subito modificazioni storiche di cui occorre tener conto se si deve operare per estinguerle nella storia futura.

Intanto si constata che neppure i militari fanno più riferimento alla guerra senza aggettivarla: difensiva, chirurgica, preventiva, umanitaria. Appare evidente che la guerra, in quanto tale, non ha più valore positivo nella mentalità comune. Eppure non si riesce a produrre da questa ricomposizione anche psicologica il cambiamento necessario: cedant arma togae. Gli eserciti non fanno nessun passo indietro davanti alla diplomazia che, anche per molti cittadini inesperti, non si sa bene che cosa stia a fare. Eppure, quando qualcuno vent'anni fa pensò alla misura minima di unificare le Commissioni parlamentari esteri e difesa, trovò opposizione unanime. Mentre è ovvio che non c'è politica militare corretta se non c'è politica estera competente.

In ogni caso gli eserciti ci sono: anche l'antimilitarista estremo (potrei esserlo perfino io) sa bene che passeranno molte generazioni prima che questi impiegati dello stato operino in altro campo e per altri fini. Per oggi ci sono, come c'è la produzione bellica e - qui, invece, qualche critica abbiamo da farla - non si sa perché dopo il grande movimento che negli anni Ottanta del secolo scorso animò il paese per ottenere dal Parlamento una legge di regolamentazione sulla produzione e sul commercio delle armi, non sia stato portato avanti l'impegno, collegandosi con altri Paesi europei, per ottenere degli standard comuni all'interno dell'Unione (il disarmo unilaterale, per quanto teoricamente generoso, mantiene la complicità se, chi si ritira dal mercato, viene immediatamente sostituito dal vicino ben lieto di allargare i profitti). Il fatto che "gli eserciti ci siano" dovrebbe indurre a prendersene cura: ci sono molti che avrebbero preferito la leva obbligatoria alla professionalità militare. A parte il danno psicologico-comportamentale di tutti i maschi educati per almeno dodici mesi a ubbidire a ordini anche sconsiderati, pronti a un signorsì estensibile a molte situazioni di vita; penso che dovrebbe partire proprio dagli obiettori un progetto educativo nonviolento che fosse specifico per i militari e che prevedesse un supporto di assistenza per chi rifiutasse ordini iniqui. Ormai si tratta di diritti acquisiti teoricamente a cui occorre dare gambe, sempre attenti alla prassi di un esercito che ha imparato molto dalle lotte dei pacifisti e adesso istituisce corsi sui diritti umani. Un altro punto problematico è quello della forza armata europea: significherebbe che l'Europa avrebbe una politica estera comune? significherebbe che è meglio lasciare le cose come stanno con Nato e Usa come protettori? Parlando di eserciti non ci sono principi in discussione, solo metodi: ma si tratta di cose urgenti da verificare insieme e non quando sono decise. Per un futuro senza eserciti meglio passare attraverso un responsabilità tutta europea o un affidamento, sia pure pro tempore, alla grande potenza?

Tutti sanno che l'Europa è stata piena di guerre, con qualche dissolvenza dovuta a trattati che, come Westafalia, nascevano dalla consapevolezza che con la belligeranza non ci guadagnava nessuno; ma non duravano, anche se segnavano la storia. Il secolo scorso pronunciò il suo primo "mai più" dopo la prima guerra mondiale, per ripeterlo trent'anni dopo sulle macerie di regimi esiziali sorti non senza complicità dei paesi liberi che, con la scusa del male minore, misero a rischio la libertà di un continente. Oggi la situazione torna a essere gravissima: l'Occidente ricco provoca reazioni non inimmaginabili in quel Sud del mondo che ormai sa a livello di masse sempre più estese di essere depredato delle proprie risorse, espropriato della propria cultura, coinvolto in contese interne in cui le intromissioni esterne dividono e massacrano ancor più, beffato dai programmi di aiuto a cui si devolvono miserie, mentre l'Occidente vive nel superfluo e reagisce contro la crescente immigrazione, ma non contro la scarsità degli aiuti ai paesi poveri. Le reazioni non sono solo quelle delle "invasioni barbariche". Ci siamo difesi dalle lotte di liberazione dei popoli favorendo approdi meno odiosi dei regimi militari e lasciando all'evolversi delle situazioni interne - pur che mantenessero i legami di interesse con i governi-padroni - la responsabilità di governo. Anche in questo campo non mancano novità: non sempre i nuovi governi sono corrotti o del tutto conniventi con gli Usa e l'Europa, ma si sono manifestati segni di indipendenza e di autonomia. 

In altre parti, ahimè molto vicine all'Europa, ci sono manifestazioni ben diverse: per molti, troppi la democrazia (che, in qualche modo è in crisi in Occidente) viene rifiutata come bene di popoli corrotti e miscredenti. Siamo il nemico (e lo siamo anche perché non l’abbiamo mai riconosciuto l'amico ).

E si torna alle armi e agli eserciti: dove la violenza delle situazioni ripropone, anche per disperazione, la vendetta e le persone si raccolgono sotto bandiere, si armano, dietro a leader che si sono esercitati e che comandano le azioni. Anche per questi, diversi eserciti occorre capire il ruolo delle armi oggi.

Chi possiede eserciti tradizionali li dota di armi sempre più sofisticate (abbiamo ingegneri che le progettano e che si sentono non colpevoli del loro uso); ci sono sgarri rispetto alle norme internazionali e le armi chimiche o l'uranio arricchito ci è sfuggito più volte. Tuttavia, i soliti profeti di sventura ricordavano trent'anni fa che il chimico e il biobatteriologico erano le armi dei poveri. "Gran bontà dei cavalieri antiqui", i poveri non le hanno usate, tranne alcune sette in casi particolari; tuttavia il gas nervino usato nella metropolitana di Tokyo fece capire che armi letali di quel genere, predisposte tenendo separati a distanza i componenti-base da miscelare al momento dell'uso, erano incontrollabili. Negli anni Ottanta in Usa si lesse addirittura un'inserzione per vendere virus di peste che mise in luce con che facilità possano uscire dai laboratori le provette. D'altra parte niente allarmismi: anche Annibale avvelenava i pozzi. Solo che oggi abbiamo paura. Ma non pensiamo alle stragi e ai danni a carico di innocenti fatto dalle nostre armi, "convenzionali" e non. Gli "altri" si armano anche loro e noi siamo impotenti per non aver praticato politiche di giustizia, di condivisione, di approfondimento sulle nostre storie diverse. Le risoluzioni delle Nazioni Unite sono rimaste inapplicate, senza nostra rivolta, e anche oggi il cessate il fuoco arriva "dopo" distruzioni che stanno fuori da tutte le norme del diritto internazionale, dall'antica sovranità agli attuali diritti umani. Chiamarci fuori come europei che invocano la "neutralità"? Non so quali illusioni, dopo la seconda guerra mondiale e i certamente tanti ebrei salvati in Svizzera, ma anche l'altrettanto certo passaggio di armi attraverso il territorio elvetico. D'altra parte, le esercitazioni per la propria aeronautica la Svizzera le pratica, per accordo, dalle parti della Sardegna. La neutralità svedese è più gloriosa, ma anche la Svezia produce armi. Certamente sarebbe importante che la gente conoscesse queste possibilità e ne ragionasse. Infatti tutti ci rendiamo conto dei problemi e cominciamo ad annaspare quando l'acqua tocca il livello di guardia.

È mancato, fino a oggi, il "fare politica"da parte dei democratici non potenti che si definiscono pacifisti, fanno le marce e le fiaccolate, pubblicano le loro denunce, vanno anche a morire a fianco delle vittime. E qualche volta si sentono molto depressi. Non è la prima volta che accade, anche se in situazioni diverse e, in qualche modo, meno pericolose. A scuola non si impara la storia del pacifismo, che è stato proprio non solo di intellettuali illuminati come Erasmo da Rotterdam, ma anche di persone che, un secolo e mezzo fa presentivano che tutto stava convergendo verso una futura "guerra  mondiale" (Clemence Rouvier) o che pensavano che solo l'Europa unita avrebbe potuto favorire un'epoca di pace (cfr. la rivista Les Etats Unis d'Europe del 1868). Si crearono dei movimenti in quasi tutti i paesi europei e le loro iniziative erano così rilevanti, anche a livello informativo, che inviavano telegrammi il re d'Inghilterra e lo zar di Russia. Ipocrisie di una ragion di stato un po' più elegante delle nostre; ma l'esito non solo non soddisfece le aspettative, ma quella "storia" venne cancellata e nessuno la ricorda.

La nostra bella nonviolenza, anch'essa partita dalla notte dei tempi, è stata luogo ideale di minoranze; oggi il mondo è molto più ridotto e, anche se gli indiani non sono tanto memori di Gandhi, anche se i lavoratori europei non si rendono conto del valore nonviolento della loro importante invenzione dello sciopero, sono molte di più le persone che sarebbero disponibili a seguire politiche di pace. Anche i nuovi sistemi comunicativi ci possono aiutare. Ma occorre che si dia senso comune al massimo numero di persone e istituzioni di un'esigenza di pace così seria che crea proposte - tutte da costruire - per fare cultura nonviolenta, per avanzare proposte per prevenire la degenerazione di conflitti nascenti, per sostenere le istituzioni della pace a partire dall'ONU e l'intervento umanitario a fianco delle vittime siano attuabili e credibili. Per fare questo occorre, però, distinguere: lo stare dalla parte delle vittime è doveroso sul piano umanitario e della carità umana o cristiana che dir si voglia; ma le due parti hanno ragioni che si raccontano e in cui credono entrambe. Se nel fare politica si sta da una parte sola senza  tener conto delle ragioni dell'altra si entra, pur non volendo, nella logica amico/nemico. Solo con questa impostazione mentale possiamo ricorre a ragionare sui diritti, non quelli astratti, ma quelli internazionalmente riconosciuti, che sono tanti e aspettano solo la sollecitazione di chi, anche dal basso, li conosce e li vuole applicare. Altrimenti non si fa politica di pace.

 

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