Una questione morale. E non solo.
Il sistema giudiziario funziona molto male, non solo nelle zone sotto i riflettori, ma ancor più nei tanti angoli in ombra. Eppure anche quel poco dà fastidio. Per averne conferma basta prendere in considerazione le ragioni di chi attacca la giurisdizione: si vedrà che l'obiettivo è avere meno, non più giustizia. Un esempio per tutti: quando un uomo politico viene indagato per corruzione o collusioni con la mafia, la regola sembra diventata l’accusa - per il magistrato che procede - di “fare politica”. Accusa, manco a dirlo, a senso unico: rivolta a chi indaga (eventualmente a chi condanna), mentre chi si defila o assolve viene gratificato (a prescindere dalla fondatezza o meno della decisione) con gli osanna riservati al “giudice giusto”. A ciò si è pervenuti – archiviando il consenso che aveva accompagnato le indagini di Tangentopoli e la “seconda primavera” di Palermo, quella del “dopo stragi” – finanche con l'invenzione (o l'uso deformato) di termini evocativi di situazioni caratterizzate da scontri politici senza regole, come «giustizialismo» o «giacobinismo». Il tutto intrecciato con l'accantonamento di fatto della questione morale.
Ora, la questione morale non è una “pruderie” di benpensanti, non è un vecchio arnese da relegare in soffitta, come molti vorrebbero far credere. È invece una grande questione democratica e istituzionale (per la decisiva ragione che un sistema intriso di corruzione o di rapporti con la mafia è l'emblema del prevalere dell'interesse privato sull'interesse pubblico). Per contro, l’accantonamento della questione morale (di cui è corollario il frequente invito alla giurisdizione di fare un "passo indietro") sta - negli ultimi tempi - diventando vera e propria rimozione.
Le dimissioni da incarichi pubblici a seguito di sottoposizione a processo penale o addirittura di condanna sono cadute in desuetudine, a differenza di quanto accade nella maggior parte dei sistemi simili al nostro, dove sono sufficienti irregolarità di carattere amministrativo relative a una “colf” o “badante” per stroncare irreversibilmente carriere politiche prestigiose. Negli ultimi programmi elettorali, non solo del centro-destra ma anche del centro-sinistra, è scomparsa finanche l’evocazione, all’evidenza considerata imbarazzante, dei problemi posti dal rapporto tra etica e politica.
Il vecchio detto machiavellico secondo cui gli Stati non si governano con i “pater noster” fa decisamente premio sul pensiero dei nostri “maggiori” – da Bobbio in poi – secondo i quali la corruzione è priva di giustificazioni politiche e, come il tiranno resta tiranno, così il corrotto ( o colluso) resta corrotto ( o colluso), a prescindere dal consenso, dal successo elettorale e dalla frequenza delle comparsate televisive.
È sperabile che ciclo funesto di errori, debolezze e transazioni che si sintetizza nell’eclissi della questione morale finisca. Gaetano Mosca ( nel suo opuscolo “Che cosa è la mafia”) ammoniva che “quando si permette uno strappo alla giustizia e alla legalità, non è possibile prevedere dove lo strappo andrà a fermarsi e che può accadere che esso si allarghi tanto da ridurre a brandelli tutto il senso morale di un popolo civile”. Sono passati oltre cent’anni: eppure ancora oggi è doveroso ripetere – pari pari – lo stesso monito.