La qualità “globale” dello sviluppo
Il vecchio impegno di dimezzare la povertà entro il 2010 è stato rinverdito di belle parole nella dichiarazione delle Nazioni Unite per l'avvio del terzo millennio.
Dignità e uguali diritti di tutti gli esseri umani, democrazia, pace, ambiente dovevano diventare le priorità di tutti i paesi, a prescindere dai diversi rapporti di forza.
Anche se molto è cambiato, la povertà, i conflitti, la repressione, la mancanza di rispetto dei diritti umani persistono e si dislocano nelle diverse parti del mondo e all'interno di ciascuna senza consentire di prevederne gli esiti e, addirittura, di capire se consentono qualche ottimismo o se assisteremo a ulteriori regressioni e contagi.
È recente la pubblicazione del rapporto/2003 dell'UNDP, il programma Onu sullo sviluppo. All'insegna del tema "le azioni politiche contro la povertà", invita a ripensare le contraddizioni di un mondo squilibrato secondo criteri di analisi che causano problematicità e che non sono confrontabili con quelli del passato recente, ancora fuori dalla nostra consapevolezza sugli effetti reali e potenziali della globalizzazione.
I benefici che essa ha portato sono stati grandi, ma senza alcun carattere di prevedibilità circa la soluzione "universale" dei problemi di giustizia e di pace. Dagli anni Settanta la vita umana si è allungata di 8 anni, ma in un piccolo gruppo di paesi si è, in contro-tendenza, ridotta; molte malattie sono diventate curabili in ragione dell'avanzamento delle tecniche farmacologiche, ma restano inaccessibili per tanti svantaggiati nonostante qualche concessione sui prezzi e sui brevetti; l'analfabetismo si è abbastanza ridotto, ma a vantaggio solo dei maschi. Ci sono fenomeni di aggravamento, anziché di progresso, della povertà e della fame per circa un quarto dei paesi membri dell'Onu, proprio perché si progredisce sempre rinnovando lo sbilanciamento.
Il rapporto non lo dice, ma viene da pensare che anche in Occidente non solo i ricchi diventano sempre più ricchi, ma aumenta il benessere di molti fino a pochi anni fa esclusi dal possesso di beni, mentre una fascia sociale finora più protetta dall'iniziativa pubblica sta regredendo a limiti insostenibili.
Le frontiere dell' "impegno" – parola da tempo caduta in disuso, ma carica di senso e da ridire – si spostano. Gli occidentali (sempre privilegiati non foss'altro perché stanno da loro le leve dei poteri, anche se sembrano incontrollabili) hanno lavorato nelle ong contro la fame nel mondo, il debito dei pvs, le repressioni per promuovere l'uguaglianza, la democrazia, la pace.
Bisogna ora alzare il tiro, proprio perché la globalizzazione ci trascina tutti insieme verso un futuro su cui è necessario incidere fin d'ora. Settori di impegno su cui specializzarsi sono ormai l'istruzione, la sanità, i servizi sociali, i diritti femminili, l'ambiente sostenibile, l'acqua, la produttività soprattutto agricola, l'accesso alle tecnologie. Anche gli organismi internazionali – più o meno governati dai "poteri forti" – si vengono diversificando: ci sono state lotte di successo contro il Mai ("mai dire Mai"), ma ora ci sono il Wto, il Gats, il Trips (sui servizi e la proprietà intellettuale) per introdurre "universalmente" la liberalizzazione anche di merci che merci non sono.
Basta pensare che per l'acqua, che è destinata a diventare un "bene prezioso", non solo le imprese delle minerali sono in espansione verso il modello holding, ma sono già presenti, per esempio in Italia, iniziative mercantili statunitensi: occorre prevedere le condizioni future tenendo presenti non le sole situazioni locali, ma l'intreccio tra i problemi dei singoli paesi e la dimensione generale.
Acqua, salute, educazione, trasporti, informazione, ambiente, alimentazione, agricoltura sono ormai diritti che i privilegiati non debbono perdere – perché non ci se ne accorge, ma sono sotto attacco da noi – ma che oggettivamente appartengono a tutti. Il mondo di domani o si prevede così o anche per l'Occidente globalizzarsi farà ben presto paura.
A Cancun, sui problemi agricoli, il Sud ha messo con le spalle al muro il Nord. Molto bene; e bravi i coordinamenti internazionali che – sempre usando opportunamente internet – hanno ricreato la mobilitazione partita da Seattle e che hanno fornito in tempo reale i documenti. Che sembrerebbe opportuno analizzare nelle nostre realtà. Va messo in primo piano che la "resistenza dei 21" che, con in testa Cina, Brasile, India, hanno rovesciato il tavolo, è stata possibile solo perché si era realizzata un'unità vincente e collegata ai Paesi meno-avanzati, agli Acp, all'Unione africana (il che significa oltre 90 dei paesi aderenti al Wto).
Si tratta di un fenomeno eccezionale, che dovrebbe mantenersi per i prossimi confronti; ma non è cinismo chiedersi se la Cina resisterà alla tentazione di egemonizzare tutti o se la politica internazionale preferirà orientarsi verso relazioni bilaterali, pagando qualche paese ricattabile per non sborsare un prezzo più alto alle pretese di giustizia generale. Il problema di fondo è rappresentato dalle regole del "libero scambio": bisogna rendersi conto che la richiesta di riformare il Wto può celare l'insidia di indebolire i rapporti multilaterali; oppure che il caffè e il cacao senza sostegno economico ai produttori non potranno resistere al crollo.
A Cancun erano sul tavolo i problemi agricoli; in particolare, la chiusura degli Usa sul cotone è stata esemplare, perché i ricchi preferiscono la logica della deregulation anche se equivale alla catastrofe di milioni di coltivatori e in futuro avrà costi alti anche per gli sfruttatori, su altri livelli. Per il Sud del mondo l'agricoltura è questione fondamentale e la liberalizzazione dei mercati agricoli sarebbe mortale; anzi, è già urgente l'accesso anche ai mercati non agricoli.
Per questo le richieste a Cancun erano imperniate sulla connessione commercio-sviluppo data per scontata a Doha. Invece sui temi della concorrenza, degli investimenti, della facilitazione degli scambi, della trasparenza dei mercati pubblici, delle barriere commerciali si è consumata la rottura per l'ostilità totale degli Usa e la debole resistenza dell'Europa davanti alle richieste di coerenza su quella "flessibilità" che, per le parole a suo tempo pronunciate, era stata prevista.
Adesso anche il Nord è in questione. I paesi poveri ci rinfacciano i sostegni alla nostra agricoltura e la chiusura ai loro prodotti perché se ne teme la concorrenza. È evidente che la circolazione del danaro potrebbe invertire direzione: se dessimo sostegno al Sud, al Nord calerebbero i prezzi al consumo e la flessione dei guadagni dei produttori non penalizzerebbe così tanto un mercato in via di riequilibrio su standard finalizzati al benessere e non al solo profitto.
Anche questa sarebbe prevenzione dei conflitti. Ma quanti sono pronti a chiedere, per esempio, in Italia (e, poi, in Europa) la riduzione dei sostegni all'agricoltura?