Il nuovo timone della CEI
“Se il Papa chiama, si risponde”. Da buon militare (è stato a capo dei cappellani, e come tale è generale di corpo d’armata in pensione), l’arcivescovo Angelo Bagnasco ha annunciato così, nella sua Genova, la nomina appena ricevuta a presidente dei vescovi italiani. Un “obbedisco” senza fronzoli e senza protagonismi, in accordo con l’immagine di uomo asciutto, mai oltre le righe. Alla stessa ora, a Roma, il cardinale Ruini, sorridente e quasi sollevato, ricorreva invece a una battuta: “Vi do una notizia che nessuno conosce…”.
La nomina di mons. Bagnasco apre per la Cei e per la Chiesa italiana una fase nuova, in un momento molto delicato nei rapporti Stato-Chiesa. Ruini per sedici anni è stato sì il presidente dei vescovi, ma anche molto di più. Interprete italiano della linea prima di Giovanni Paolo II e poi di Benedetto XVI, è diventato uno dei protagonisti della scena non solo ecclesiale ma politica e culturale del nostro paese. E’ stato ai vertici della Conferenza episcopale italiana in anni che non è esagerato definire drammatici non solo per la Chiesa ma per la sopravvivenza stessa della cultura cattolica. La fine della Dc, l’inizio della fase bipolare, i rapidissimi cambiamenti antropologici, gli sviluppi delle biotecnologie applicate all’uomo e il disorientamento morale sempre più profondo e diffuso sono state sfide che avrebbero fatto tremare chiunque. Don Camillo le ha affrontate da par suo. Con eccessivo interventismo politico e poca tensione pastorale, osserva qualcuno. Ma nessuno può negare che se Ruini, con il passare degli anni, ha privilegiato sempre di più la dimensione politica la responsabilità sta anche al di fuori della Cei, in quei palazzi del potere che in misura crescente e spesso sfacciata hanno cercato sponde politiche in Vaticano e nella Conferenza episcopale per nascondere la propria pochezza e guadagnare salvaguardie religiose a scopo elettorale.
Ora si volta pagina, ma fino a un certo punto. Intanto don Camillo resterà ancora per un po’ vicario di Roma, là dove si trova da più di tre lustri. E poi eserciterà un discreto ma efficace controllo a distanza nei confronti del suo successore. Qualcuno ha parlato di “tutor”. Diciamo che se Ruini si fa da parte, la sua linea resta assolutamente centrale, perché così vuole Benedetto XVI, che al contrario di Wojtyla segue in presa diretta le cose italiane e più volte ha pubblicamente lodato la conferenza dei vescovi italiani, indicata a esempio anche per altri episcopati europei, ben più incerti e dispersi, ai suoi occhi, di quello nostrano.
Angelo Bagnasco è noto come uomo ragionevole e capace di sagge mediazioni. Il suo cipiglio è però venuto fuori chiaramente quando, l’anno scorso, disertò il festival della scienza genovese perché “troppo laicista”. Gli organizzatori lo pregarono in tutti i modi, ma l’arcivescovo fu irremovibile: “Ho dato un’occhiata al programma e mi sembra a senso unico”. Quella volta agli occhi di Ruini e del papa si guadagnò una particolare benemerenza. Ma il suo grande sponsor è un altro: è il cardinale Tarcisio Bertone, attuale segretario di Stato vaticano e predecessore di Bagnasco sulla cattedra genovese. E’ stato proprio Bertone a individuarlo e a proporlo al pontefice come soluzione intermedia fra il candidato più gradito alla maggioranza dei vescovi (Tettamanzi di Milano), quello nel cuore di Comunione e liberazione (Scola di Venezia), quello che avrebbe garantito una svolta marcatamente pastorale (Benigno Papa di Taranto) e quello apprezzato da Benedetto (Caffarra di Bologna).
La vicenda “dico”, con le conseguenti lacerazioni in casa cattolica, ha reso il clima attorno alla successione quanto mai surriscaldato ma nello stesso tempo ha anche spianato la strada a Bagnasco. Bertone ha convinto il papa della necessità di scegliere un uomo dal profilo capace di accontentare anime e sensibilità diverse, concentrando sulla segreteria di Stato quelle responsabilità politiche che nel tempo erano state assunte in modo sempre più marcato e deciso dalla Cei di Ruini. La vera svolta sta qui, perché nei sacri palazzi si vuole che i travagli ma anche i nuovi orizzonti politici che si aprono per i cattolici siano seguiti da vicino, liberando nello stesso tempo la Cei da un ruolo che rischiava di snaturarla. Per sancire il passaggio c’era bisogno anche di un dato simbolico: ecco perché Bagnasco continuerà a risiedere a Genova. Dopo le presidenze Poletti e Ruini si torna così al modello periferico, mettendo fine all’anomalia tutta italiana di un presidente dei vescovi che risiede nella stessa città del papa.
Dire che cosa si attende la Chiesa italiana da Angelo Bagnasco richiederebbe analisi approfondite, anche perché è ormai chiaro che in realtà molte sono le Chiese in Italia. Ce n’è una, quella più improntata alla vicinanza rispetto alla vita sociale e ai suoi travagli, che vorrebbe una presidenza più attenta ai problemi squisitamente pastorali e di evangelizzazione, specialmente per quanto riguarda la cosiddetta prima evangelizzazione in una società ormai non solo ampiamente secolarizzata ma anche scristianizzata, nella quale è difficile trovare anche solo un alfabeto per comunicare con i più lontani. Questa Chiesa, stanca di proclami calati dall’alto, di documenti formalmente ricchissimi ma umanamente freddi e sostanzialmente inutili, di analisi antropologiche, morali e politiche fondate sulla sfiducia nei confronti della modernità, si aspetta una Cei più vivace e propositiva, con un dibattito interno più coraggioso e un ruolo dei laici finalmente valorizzato nei fatti e non solo a parole. Poi c’è la Chiesa che si riconosce appieno nei tambureggianti pronunciamenti di Benedetto, di conferma e di consolidamento della fede in un mare tempestoso, una Chiesa che chiede prese di posizione nette sui valori “non disponibili” come la vita e la libertà religiosa, una Chiesa che non solo vede con favore l’intervento pubblico della gerarchia ma lo sollecita e se ne sente rassicurata di fronte al duplice assalto del laicismo e dell’Islam. Bagnasco dovrà giostrarsi fra queste attese diverse. Risiedere in una città come Genova dovrebbe aiutarlo a tenere presente questa molteplicità di orientamenti modulando le risposte con maggiore sensibilità. Una città, Genova, che per la Chiesa si sta rivelando inesauribile serbatoio di risorse umane, visto che da qui il papa ha prelevato in pochi anni il nuovo arcivescovo di Milano, Tettamanzi, il nuovo segretario di Stato, Bertone, e ora il nuovo presidente della Cei.
Sessantaquattro anni, ordinato sacerdote da quel cardinale Siri che Bertone, durante la permanenza genovese, indicò come punto di riferimento, don Angelo è stato dipinto come intransigente, ma chi lo conosce bene nega. Non di intransigenza si tratterebbe ma di autenticità evangelica. Dialogo sì, ma senza facili compromessi né cedimenti. Ha studiato metafisica ma anche ateismo contemporaneo. Gli strumenti per confrontarsi non dovrebbero mancargli. A dispetto dell’apparenza austera, chi lo ebbe come assistente negli scout genovesi racconta che l’uomo è capace di spirito di servizio e slanci gioiosi. Negli anni Ottanta, nella federazione degli universitari cattolici, fa l’esperienza di tensioni forti e di scontri, ma tutti gli riconoscono, anche qui, capacità di mediazione.
È una dote che dovrà rispolverare, calandosi nell’ascolto delle domande, delle sofferenze ma anche dei sogni di quel popolo di Dio che, in modo molto spesso nascosto, nonostante delusioni e incomprensioni, continua a essere sale della terra. Nelle prime dichiarazioni ha parlato di collegialità, corresponsabilità e centralità delle Chiese locali. Sono parole conciliari. Sono in tanti ad augurarsi che tornino a essere non solo parole.