Europa, tra il già e il non ancora

6 marzo 2008 - Giuseppe, Fabio Dell’Olio

Il tempo incalza, la locomotiva della scienza e della tecnica che ha attraversato il “secolo breve” non si concede fermate intermedie, ma accelera inesorabilmente. Paesaggi suggestivi e contrastanti, apocalittici ed entusiasmanti, si stagliano fuori dal finestrino della storia.
Alcuni fotogrammi restano scolpiti nella memoria comune. Dal fungo atomico di Hiroshima al dècoupage di Yalta; dallo studente pechinese di pizza Tiananmen al crollo del muro di Berlino. Dai bagliori dei bombardamenti della prima guerra del Golfo agli scontri accesi nella polveriera balcanica. L’Europa è stata per secoli teatro di guerre, incubatrice di identità nazionali, terra d’imbarco per impavidi avventurieri sulle rotte d’Oriente. Ad un tratto, dal terribile flagello della guerra, ha imparato – citando un europeista convinto come il Ministro Tommaso Padoa-Schioppa - che “per darsi unità e pace era necessario opporre alla forza rozza delle armi e dell’istinto quella gentile del diritto e della civiltà”.
In mezzo secolo la parabola di quella “rivoluzione gentile”, di trattato in trattato, ci ha persuasi che la strada della limitazione dei poteri sovrani potesse essere vincente. Un’idea rivoluzionaria è stata la creazione di poteri sovranazionali in quella parte del mondo dove lo stato nazionale era nato. Lungi dall’essere un grande “supermercato” che ubbidisce esclusivamente alla logica del capitale, ora quell’Europa che diede origine a due guerre mondiali è diventata, secondo Carlo Azeglio Ciampi, “una vera comunità di popoli, uno spazio di pace e libertà, un modello per il mondo”. Ma per darle legittimità, la costruzione europea doveva ormai passare attraverso i diritti e non solo attraverso il mercato.
Un sogno lungo una vita per un apostolo dell’Europa dei popoli come Altiero Spinelli. Un sogno che solo il 29 ottobre 2004 nel Campidoglio a Roma, 47 anni dopo lo storico Trattato istitutivo della CEE, i leader di 25 paesi hanno sottoscritto solennemente. Ma dal momento che nessuna Costituzione, nessuna istituzione politica o giuridica vive di vita propria, l’Unione europea unita è un plebiscito quotidiano. E l’ultima parola è spettata, democraticamente, ai popoli. Che si sono espressi non unanimemente. Il voto contrario nei referendum francesi e olandesi sulla Costituzione europea, non deve essere considerato antieuropeo. Va interpretato alla luce dell’attuale contesto sociale ed economico in cui versano gli Stati dell’Unione: una disoccupazione dilagante (20 milioni di disoccupati nell’Ue e 93 milioni di cittadini economicamente inattivi) che inghiotte ogni logica d’integrazione; un diffuso scetticismo sul funzionamento democratico delle sue istituzioni; e i grossi ritardi subiti nel processo di piena attuazione della PESC (politica europea di sicurezza comune). Un altro pilastro irrinunciabile da cui ripartire nel nuovo testo del Trattato sull’Unione europea, è la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (Nizza, 2000), a cui il nuovo Trattato rinvierà riconoscendole “valore giuridico vincolante” pari a quello dei trattati. “Oggi la Carta non è solo la prima dichiarazione dei diritti del terzo millennio, – ha osservato l’insigne giurista italiano Stefano Rodotà – ma può rappresentare una sfida proprio per quelle attitudini chiuse e conservatrici. Nel difficile cammino d’Europa può essere un lievito”. L’impresa più difficile nel processo di allargamento europeo è stata realizzata sabato 1 maggio 2004.
Sotto il cielo di Dublino, che ha celebrato ufficialmente l’avvenimento, sono spuntate altre 10 stelle che si vanno ad aggiungere alle 15 già presenti nella costellazione europea.
Si tratta dei paesi dell’ex blocco sovietico, che hanno pagato un caro prezzo alle dittature comuniste. Così l’UE è passata da 379 milioni di abitanti a 458, divenendo la terza entità politica del pianeta, dopo Cina e India. Una entità poliglotta con ben 20 lingue ufficiali.
La caduta di un muro è sempre un passo importante verso la libertà. E quando a Gorizia, allo scoccar della mezzanotte dello stesso giorno, cade simbolicamente l’ultimo pezzo del muro che tagliava in due la città, Romano Prodi, allora presidente della Commissione europea, e il premier sloveno Anton Rop, commentano fiduciosi il quinto e più grande allargamento della storia dell’Unione.
“Solo uniti potremo mantenere e sviluppare la nostra indipendenza nel mondo, i valori e il nostro modello di sviluppo economico, politico e sociale. Ecco perché è tanto importante che l’albero dell’integrazione estenda oggi i suoi rami su questo piazzale, che per tanti anni è stato il simbolo dell’odio tra i fratelli europei” – incitava il premier sloveno. Anche Lech Walesa, premio nobel e uno di coloro che hanno contribuito a far cadere il muro del comunismo, aveva dichiarato: “Il sogno della mia vita è realizzato, il mio lutto è finito”. Ma dietro i grandi festeggiamenti per l’accresciuta famiglia europea, si cela un timore essenzialmente “politico”: la paura di un’ondata migratoria proveniente dai nuovi membri dell’Est europeo. Preoccupazione che si è rivelata presto infondata. Poiché dopo il primo maggio, non più dell’1% della popolazione attiva è stata interessata dal fenomeno migratorio (circa 220 mila persone all’anno in tutto il Continente, meno della necessità degli stranieri che dichiarano i soli industriali italiani).
L’allargamento europeo a 25 stati, è stato uno choc necessario, in un momento di transizione e di crisi delle istituzioni europee. Di transizione a causa della scadenza del mandato della Commissione Prodi, delle elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo e per l’esito della conferenza intergovernativa sulla Costituzione. Di crisi, per via della debolezza sul piano politico globale e l’insufficiente dinamismo economico che generano un clima di contagioso scetticismo. “L’Europa è un paradosso permanente, – ha dichiarato in occasione dell’allargamento Mario Monti, dieci anni di onorato incarico alla Commissione di Bruxelles - spesso la sua costruzione avanza proprio nei momenti di maggiore pessimismo”. Infatti negli ultimi dieci anni che hanno preceduto la festa del “Day of Welcomes”, l’Europa ha fatto la più grande delle riforme strutturali, ha cioè riformato profondamente se stessa, attraverso quattro cardini: ha costruito il mercato unico, ha creato la moneta unica, ha realizzato l’allargamento e ha elaborato una Costituzione per l’Europa.
La sfida dell’allargamento non spaventa gli esperti come il Commissario Monti che pur ammettendo l’esistenza di “una dose di imprevedibilità” nell’allargamento, confidano nel fatto che “la diversità al proprio interno ha allenato l’Europa a dotarsi di capacità che le consentiranno di capire gli altri e stare nel gioco globale forse meglio di quanto non accada agli Stati Uniti”. La Ue ampliata in questo modo potrà funzionare? – è stata la domanda che più frequentemente giornalisti e autorevoli commentatori internazionali hanno posto all’indomani dell’allargamento e continuano in parte a porci. Jacques Delors, per dieci anni a capo della Commissione europea non ha dubbi: “Innanzitutto bisogna fissare alla Grande Europa obiettivi che possa ragionevolmente raggiungere. Cioè uno spazio di pace e di comprensione reciproca, un quadro unitario per uno sviluppo durevole e solidale e la salvaguardia della diversità culturale. La seconda condizione è quella di tornare alla purezza e alla tradizione del metodo comunitario. Cioè permettere alle istituzioni comunitarie di funzionare correttamente”. Ad esempio il Consiglio europeo non deve discutere di tutto, ma deve indicare la direzione da seguire. Evitare dunque una eccessiva concentrazione di funzioni in uno stesso organo e semplificare enormemente le procedure. Mentre si continua a discutere apertamente e con grande vitalità delle sorti dell’Unione, del rispetto dei requisiti per l’ammissione dei nuovi e per la permanenza delle “matricole”, due sociologi di fama mondiale come Ulrich Beck ed Anthony Giddens, ci ricordano che “dovremmo incominciare a vedere l’Europa non come una nazione incompiuta o uno Stato federale incompleto, ma piuttosto come un progetto cosmopolita di nuovo genere”.
Con la consapevolezza che il processo di integrazione europea non può andare avanti attraverso l’eliminazione delle differenze. Perché, come ricordano Beck e Giddens, “la diversità non è il problema, bensì la soluzione”.

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