4 NOVEMBRE 1918 - 4 NOVEMBRE 2008
Permettetemi di iniziare questo breve intervento con un ricordo personale, che ci porta alla seconda guerra mondiale.
Nell’inverno 1944 in un campo di concentramento della Siberia tre soldati italiani escono dalla propria baracca e poco lontano si mettono con le mani a scavare per cercare delle patate, dove sanno che probabilmente ne sono rimaste alcune non raccolte. La fame è insopportabile, al pari del freddo. Una guardia russa li vede e per punizione subito uccide uno dei tre. E’ un bresciano, della bassa. Degli altri due uno era mio padre, che ha trascorso tre anni in Siberia e complessivamente otto anni lontano da casa per la seconda guerra mondiale.
Questa è la guerra, morire per una patata, morire senza motivo, solo perché la fame è troppa e si sta cercando qualcosa da mangiare. Non c’è poesia nella guerra, non c’è romanticismo, c’è solamente il tentativo di sopravvivere a tutti i costi.
Ma la guerra per mio padre e per i suoi due amici voleva dire anche essere in un paese straniero, in terra d’altri, inviati a combattere per una causa sbagliata, costretti a partire da dei criminali che prima avevano instaurato nel nostro Paese una dittatura e poi portarono il Paese alla guerra accanto a Hitler.
Oggi ricordiamo la conclusione di un’altra guerra, il primo conflitto mondiale: sono trascorsi novant’anni da quando è terminato per il nostro Paese. E’ stata una guerra disastrosa, che si è conclusa dopo 52 mesi di lotta. Il prezzo pagato dai vari paesi europei, prima di tutto sul piano umano, fu enorme:
- circa dieci milioni di morti;
- 20 milioni di feriti gravi e mutilati;
- un’intera generazione di giovani decimata;
- dei circa 60 milioni di uomini che vestirono la divisa tra il 1914 e il 1918, solamente un terzo ebbe la fortuna di tornare a casa illeso fisicamente, ma gravemente segnato nello spirito e nell’animo;
- al nostro paese la guerra causò più di 600 mila morti, oltre a decine di migliaia di mutilati e di senza tetto;
- la popolazione europea, indebolita dalle privazioni e dalla fame, subì anche gli effetti di una terribile epidemia: una violenta forma influenzale, detta “spagnola”, che fece nel continente venti milioni di vittime;
- per non parlare del costo economico del conflitto: tutti i paesi coinvolti ne uscirono schiantati economicamente. Quanti tornarono dalla guerra, si trovarono senza lavoro e con i loro campi ormai incolti poiché nessuno vi aveva provveduto;
- la guerra diffuse in tutti i Paesi malcontento, sfiducia, rabbia e qui andranno a pescare a piene mani il fascismo in Italia e il nazismo in Germania.
La guerra non ha niente di poetico, di romantico, di esaltante, di eroico, di positivo. La guerra porta sofferenze indicibili, in condizioni di vita inenarrabili. Chi pensa che la guerra abbia in sé qualcosa di positivo è perché non ha mai avuto un’esperienza diretta. Chi pensa questo, ascolti quello che ha scritto Erich Maria Remarque, che partecipò alla prima guerra mondiale nell’esercito tedesco, partendo come volontario, spinto dai suoi insegnanti. E’ la narrazione di un momento durante il conflitto:
“Vediamo vivere uomini a cui manca il cranio, vediamo correre soldati a cui un colpo ha falciato via i due piedi e che inciampano sui moncherini scheggiati, fino alla prossima buca; un caporale percorre due chilometri sulle mani, trascinandosi dietro i ginocchi fracassati; un altro va al posto di medicazione premendo le mani contro le budella che traboccano; vediamo uomini senza bocca, senza mandibola, senza volto; troviamo uno che da due ore tiene stretta coi denti l’arteria del braccio per non dissanguarsi. Il sole si leva, viene la notte, fischiano le granate, la vita se ne va a goccia a goccia. Ma quel pezzetto di terra sconvolta sul quale siamo, viene mantenuto contro le prevalenti forze nemiche: poche centinaia di metri soltanto si dovettero cedere. E per ogni metro c’è un morto” (p. 123 di Niente di nuovo sul fronte occidentale).
E ancora: “Oggi nella patria della nostra giovinezza noi si camminerebbe come viaggiatori di passaggio; gli eventi ci hanno consumato; siamo divenuti accorti come mercanti, brutali come macellai. Non siamo più spensierati, ma atrocemente indifferenti. Sapremmo forse vivere, nella dolce terra: ma quale vita? Abbandonati come fanciulli, disillusi come vecchi, siamo rozzi, tristi, superficiali. Io penso che siamo perduti” (Niente di nuovo sul fronte occidentale).
E quando si rifugia in una buca per sfuggire alle granate e nella stessa buca si ripara un soldato francese, che lui accoltella e uccide, Erich Maria Remarque fa queste riflessioni:
“Compagno, io non ti volevo uccidere. Se tu solo saltassi qua dentro un’altra volta, io non ti ucciderei, purchè anche tu fossi ragionevole. Ma prima tu eri per me solo un’idea, una formula di concetti nel mio cervello, che determinava questa risoluzione. Io ho pugnalato codesta formula. Soltanto ora vedo che sei un uomo come me. Allora pensai alle tue bombe a mano, alla tua baionetta, alle tue armi: ora vedo la tua donna, il tuo volto e quanto ci somigliamo. Perdonami compagno. Noi vediamo queste cose sempre troppo tardi. Perché non ci hanno mai detto che siete poveri cani come noi, che le vostre mamme sono in angoscia per voi, proprio come le nostre per noi, e che abbiamo lo stesso terrore, la stessa morte, lo stesso patire. Perdonami, compagno, come potevi tu essere mio nemico? Se gettiamo via queste armi e queste uniformi, potresti essere mio fratello. Prenditi vent’anni della mia vita, fratello, e alzati, prendine di più, perché io non so che cosa ne potrò ormai fare”(p. 193).
Erich Maria Remarque per questo suo libro in cui raccontava la guerra come essa realmente è, ossia morte, annientamento, disumanizzazione, bestialità, già nel 1932 dovette lasciare la Germania e nel 1937 il governo nazista gli tolse la cittadinanza tedesca: parlare di pace, condannare la guerra non poteva essere accettato dall’ideologia nazista, che si preparava a portare il mondo ad un nuovo disastroso conflitto.
Questo accadde anche in Italia, a un giovane prete che nel 1932, alla predica del 4 novembre, parlò di pace e condannò la guerra, lui che era stato interventista e che si era arruolato come cappellano militare. Ha detto in quella predica del 4 novembre 1932:
“Vogliamo la pace, desideriamo la pace. La leggete dalle parole scritte sul monumento: Pace a tutti nel segno della croce. Siamo creati custodi della pace.
Altri non potranno credere alla possibilità della pace tra gli uomini. Ma noi che non abbiamo interessi egoistici da far valere e vanità di nessun genere, noi ci crediamo, tanto più che sappiamo cos’è costata. È il dono dei nostri morti, di tutti i morti della guerra. Contro le cattiverie e gli egoismi di ogni genere, noi prendiamo con riverenza e pietà i nostri morti e facciamo con essi la barricata contro l’inondare negli animi della guerra.
Quel Cristo in cui noi ritroviamo tutti i nostri morti, e che ha detto: «Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amato», darà forza alla nostra fede, al sacrificio dei nostri morti, perché si riavvicini e si avveri il giorno di un’umanità in lui riconciliata”.
Ma anche nel 1932 parlare di pace non era possibile e quel sacerdote venne denunciato per oltraggio
ai caduti: per il fascismo la parola pace era segno di debolezza, di disfattismo. Non andava usata. Quel sacerdote, perseguitato a lungo dal fascismo, costretto negli anni quaranta a nascondersi in una canonica della bassa bresciana per quattro mesi, è stata una delle più lucide menti del cattolicesimo italiano del Novecento, un anticipatore del Concilio. Si tratta di don Primo Mazzolari.
Anche uno dei nostri più grandi poeti è partito volontario per la prima guerra mondiale, pieno di entusiasmo: si tratta di Giuseppe Ungaretti. Ma gli è bastato poco per rendersi conto di cos’era la guerra e ci ha lasciato una raccolta di poesie, dal titolo Porto sepolto, che rappresentano un grande inno per la pace e contro la guerra. Sentiamone solo una.
San Martino del Carso
Di queste case
Non è rimasto
Che qualche
Brandello di muro.
Di tanti
Che mi corrispondevano
Non è rimasto
Neppure tanto.
Ma nel mio cuore
Nessuna croce manca.
È il mio cuore
Il paese più straziato.
La guerra è dunque il sonno della ragione, una sconfitta per tutti, soprattutto per la povera gente, che non sa perché deve andare a combattere. La guerra non risolve i problemi, li aumenta a dismisura, esaspera le divisioni, alimenta gli estremismi, dà voce agli istinti più bestiali dell’essere umano. Un Papa, Benedetto XV, alzò la propria voce e disse nel 1917:
“In sì angoscioso stato di cose, dinanzi a così grave minaccia, Noi, non per mire politiche particolari, né per suggerimento od interesse di alcuna delle parti belligeranti, ma mossi unicamente dalla coscienza del supremo dovere di Padre comune dei fedeli, dal sospiro dei figli che invocano l'opera Nostra e la Nostra parola pacificatrice, dalla voce stessa dell'umanità e della ragione, alziamo nuovamente il grido di pace, e rinnoviamo un caldo appello a chi tiene in mano le sorti delle Nazioni. Ma per non contenerci più sulle generali, come le circostanze Ci suggerirono in passato, vogliamo ora discendere a proposte più concrete e pratiche. Siamo animati dalla cara e soave speranza di vederle accettate, e di giungere quanto prima alla cessazione di questa lotta tremenda, la quale ogni giorno di più appare inutile strage”.
E concludiamo con un altro Papa che, partito proprio da Concesio, ha elevato la propria voce in difesa della pace, facendola risuonare in tutto il mondo. Ricordiamo solamente il memorabile discorso del 4 ottobre 1965 alle Nazioni Unite. Disse papa Paolo VI:
“Non gli uni contro gli altri, non più, non mai! A questo scopo principalmente è sorta l’Organizzazione delle Nazioni Unite; contro la guerra e per la pace ! Ascoltate le chiare parole d’un grande scomparso, di John Kennedy, che quattro anni or sono proclamava: “L’umanità deve porre fine alla guerra, o la guerra porrà fine all’umanità”. Non occorrono molte parole per proclamare che questo è lo scopo delle Nazioni Unite. Basta ricordare che il sangue di milioni di uomini e innumerevoli e inaudite sofferenze, inutili stragi e formidabili rovine sanciscono il patto che vi unisce, con un giuramento che deve cambiare la storia futura del mondo: non più la guerra, non più la guerra! La pace, la pace deve guidare le sorti dei Popoli e dell’intera umanità!”.
Ecco, il modo migliore per celebrare questo 4 novembre, per ricordare i 90 anni dalla fine della guerra, è quello di lavorare e impegnarsi per la pace, perché la guerra, qualsiasi guerra, porta solo morte e distruzione. Il modo migliore per ricordare i milioni di caduti è pregare per loro e fare in modo che più nessuno debba soffrire quello che loro hanno sofferto e debba combattere contro dei propri simili. La storia deve essere realmente maestra di vita. La guerra non ha mai risolto alcun problema. La pace deve essere l’impegno di ognuno. E’ questo il modo migliore per onorare i morti di 90 anni fa.