Dopo la guerra in Iraq: ripartire davvero dalla Pacem in Terris
Ci avviamo a ricordare in questo 2004 la grande manifestazione mondiale contro la guerra (15 febbraio 2003) e poi, infelicemente, l’inizio delle operazioni militari in Iraq. A un anno di distanza da quei giorni di impegno e di scelleratezza, questo presunto dopoguerra - che assomiglia più a una continuazione a basso profilo del conflitto bellico, che a una reale cessazione di esso - ci ripropone quotidianamente pesanti interrogativi etici che sembrano ancora assolutamente distanti dall’orizzonte del mondo politico, o meglio di quella parte di esso che ostinatamente appoggiò l’intervento militare: che cosa è stata veramente questa guerra?
Anzitutto, le bugie. La guerra in Iraq ha smascherato quello che tanti pensavano e che gli ispettori dell’O.N.U. invano avevano affermato: lo Stato iracheno non era in possesso di armi di distruzione di massa (o almeno le aveva eliminate prima della guerra, esattamente come gli era stato imposto per non essere attaccato!). L’affermazione del contrario resta la bugia più vile che i governanti americani e inglesi (cui si sono accodati quelli italiani) hanno pensato di dare a bere all’opinione pubblica mondiale, arrivando ad adulterare dossier per costruire a tutti i costi inesistenti “prove” della minaccia del regime iracheno sul mondo. L’uso macroscopico della menzogna come strumento politico porta sempre con sé un senso di smarrimento generale, che si può tradurre in un pericoloso abbassamento del senso etico comune; questo è il primo effetto della guerra: averci insegnato ad essere arroganti a tal punto da non arrestarci mai davanti alla verità.
Secondo, il diritto violato. La guerra scatenata contro l’Iraq, senza l’autorizzazione del Consiglio di sicurezza dell’O.N.U. e contro la volontà di gran parte della comunità mondiale, calpestando il diritto internazionale ha calpestato l’istituzione che era stata preposta alla difesa di tale diritto e della pace: le Nazioni Unite, appunto. La scelta dell’illegalità per perseguire senza scrupoli i propri interessi è il secondo regalo che chi ha partecipato alla guerra in Iraq ci ha lasciato.
Terzo, la dottrina della guerra preventiva. Con il conflitto iracheno si è oramai inaugurata una nuova giustificazione al male della guerra: essa può essere “giusta” anche se non è guerra di difesa, ma scatenata solo per evitare un’ipotetica minaccia. Quanto sia aberrante eticamente questo principio per i cristiani è fin troppo semplice da mettere a nudo, poiché la prospettiva di una “guerra preventiva” è del tutto assente nel Magistero e nella teologia morale. E questo contrasto rappresenta per i credenti un altro pessimo risultato della guerra in Iraq: le coscienze subiscono la tentazione di credere nella liceità di guerre scatenate allo scopo di prevenire un pericolo. È l’antitesi del Vangelo della pace che, nella splendida formulazione paolina, ci ricorda: “Non lasciarti vincere dal male, ma vinci con il bene il male” (Rm 12,21).
Quale spettacolo è stato offerto da cristiani con incarichi istituzionali, allorché si sono lasciati affascinare dal mortale canto della sirena di Washinghton dimenticando l’annuncio di pace di Gesù Cristo! Essi hanno mandato a infrangere la propria fede sugli scogli di una guerra rovinosa che ha prodotto un autentico naufragio etico. Si fa sempre una gran fatica a spendersi per il Vangelo, mentre l’ossequio ad alleanze e ideologie che mettono il profitto al centro della loro ragion d’essere, escludendone la verità e la vita, è sempre la via più comoda e facile. E anche la più pericolosa per l’umanità. Tuttavia se la cultura della morte ha vinto un’altra volta, l’impegno per la pace non va abbandonato, anzi ragion di più perché esso continui. Ci siamo malinconicamente lasciati alle spalle l’anno 2003, con la sua celebrazione - quanto mai tradita - del 40° anniversario dell’enciclica di Giovanni XXIII Pacem in Terris, che l’attuale Papa aveva riproposto all’inizio dell’anno come “impegno permanente”. Quella del beato Papa Giovanni fu la prima pietra miliare posta dal Magistero lungo l’affascinante percorso dell’educazione alla pace compiuto dalla Chiesa in epoca contemporanea; in essa fu indicato con chiarezza che la pace è “un ordine di cui fondamento è la verità, misura e obiettivo la giustizia, forza propulsiva l’amore, metodo di attuazione la libertà” (n. 78). Verità, giustizia, amore e libertà sono i “quattro pilastri” sui quali solamente può essere edificata la vera pace. Le disastrose considerazioni etiche sulla guerra in Iraq che abbiamo abbozzato si contrappongono, evidentemente, alle reali esigenze della pace: l’attuale politica internazionale dell’Occidente è perniciosa per la pace stessa, perché non disdegna di far uso di menzogne e di manipolare l’informazione, perché calpesta il diritto dei popoli all’autodeterminazione (applicando, tra l’altro, un inaccettabile criterio di “giustizia selettiva”: intervenire dove e quando si hanno interessi) e, in definitiva, non ha nulla a che vedere con l’amore. A quanti vogliono invece incamminarsi sui sentieri di pace – sempre in salita, è bene saperlo - resta come orientamento sicuro, anche in questo nuovo anno, l’appello di Giovanni XXIII ad assumere un “compito immenso: il compito di ricomporre i rapporti della convivenza nella verità, nella giustizia, nell’amore, nella libertà” (n. 87).