L’amore è tutto

Il testamento dell’abbé Pierre
6 maggio 2009 - Giovanni Spagnolo

Quando il 22 gennaio 2007 l’abbé Pierre, a 94 anni, si è presentato all’Incontro (Rencontre), come lui amava chiamare “l’ora della nostra morte”, avendo suggerito questo cambiamento linguistico da inserire nella preghiera mariana dell’Ave Maria, il quotidiano La Croix lo ha ricordato con una vignetta in cui si può vedere un pellegrino, avvolto in un ampio mantello, che cammina a passo spedito sulla neve, come a indicare la sua uscita dal mondo in punta di piedi, in un silenzio ovattato.
Eppure la lunga vita di questo testimone del Vangelo si è presentata più volte, nella società disumana e disumanizzante del ventesimo secolo, come segno di contraddizione, con parole controcorrente e gesti ritenuti rivoluzionari anche dai cosiddetti cristiani dell’anagrafe battesimale e della messa domenicale.
Anche qualche affermazione dell’anziano abbé, contenuta nel suo ultimo libro Mon Deu… pourquoi? (ed. Plon, 2005) e ritenuta destabilizzante per il politically correct ecclesiale, ha avuto per qualche giorno una vasta risonanza informatica, offrendo lo spunto agli sciacalli mediatici per disquisire su una questione che di tanto in tanto vivacizza il vaniloquio televisivo e mobilita gli opinionisti della carta stampata: il celibato ecclesiastico.
Sono stati molti gli epiteti con cui alla morte dell’abbé, i giornali hanno tentato di etichettare colui che senza dubbio è stato una delle personalità più amate dai francesi: L’Insorto di Dio, Il Ribelle, L’uomo che dava del tu a Dio, Difensore dei diseredati e dei poveri e così continuando, sempre sul versante dell’aspetto sociale della sua testimonianza cristiana.
Eppure nell’omelia della liturgia esequiale del 26 gennaio 2007, nella cattedrale parigina di Notre-Dame, il cardinale Philippe Barbarin ha voluto ringraziare l’abbé Pierre, non solamente e soprattutto per l’impegno da lui profuso per tutta la vita nel migliorare le condizioni dei fratelli più poveri, in modo particolare dei senza tetto, ma perché egli attingeva forza ed entusiasmo dalla “conversazione quotidiana con Gesù”.
Questa espressione ci restituisce la caratteristica più vera e autentica di Henri Grouès, nato nel 1912 in una ricca famiglia della borghesia di Lione, attratto a 19 anni, dopo un pellegrinaggio ad Assisi, dalla vita povera dei cappuccini, che lo chiameranno fra Filippo, e tra i quali si fermerà sette anni prima di lanciarsi nell’avventura della condivisione totale con gli ultimi della società.
Ordinato sacerdote il 14 agosto 1938, Henri Grouès, inizierà la sua multiforme attività di lievito profetico nella società, passando attraverso esperienze multiple, come malattia, guerra, impegno nella resistenza in cui assumerà il nome di battaglia – abbé Pierre – con cui sarà semplicemente chiamato, prete impegnato in politica, fino ad essere deputato nel 1945, carica che gli offre l’occasione per avanzare proposte di legge relative all’obiezione di coscienza e alla costruzione di case per i senza tetto.
Il 7 gennaio 1954 l’abbé Pierre pubblica sulle colonne del prestigioso Le Figaro quello che possiamo chiamare il primo appello ufficiale al ministro della casa (Logement), in cui viene denunciata la condizione di chi ancora muore di freddo per strada e invita tutti a uno sforzo sinergico con “un solo cuore e una sola anima, lottando per la scomparsa di tutte le sofferenze immeritate”.
Saranno proprio queste “sofferenze immeritate” degli uomini a sostenere l’impegno “passionale” dell’abbé a far nascere le comunità chiamate Emmaus, proprio dalla piccola località evangelica in cui i discepoli riconobbero Gesù, il Risorto, allo spezzare del pane, cioè nel momento della condivisione.
Lo stesso abbé Pierre nel suo Testament… (éd. Bayard, 1994) scriverà che: “Emmaus è nato per rispondere a una necessità, a un’urgenza. Non è né un’opera di beneficenza, né un movimento confessionale, né un movimento politico. È una scuola di coscienza e di impegno civile. Sarebbe bene che Emmaus rimanesse come il fiammifero minuscolo ma in grado di appiccare il fuoco a un’intera foresta. Ciò che importa è solo questo: che la scintilla esista”.
La ‘scintilla’ che dal cuore dell’abbé Pierre ha prodotto il grande incendio, muovendo all’azione e alla riflessione i “credenti credibili” e ponendosi come coscienza critica di tutta un’epoca, nasceva proprio dalla frequentazione e dalla conversazione quotidiana con Gesù attraverso la preghiera.
Tutto il Testamento dell’abbé è attraversato da questa certezza che è stata come la colonna sonora della sua vita: “Nel corso della mia vita, io ho trovato il sostegno nell’adorazione, nella preghiera sotto tutte le sue forme. Per lottare contro il male, l’adorazione è il rimedio assoluto. L’esperienza dimostra che quando si ha la fede, anche il sacramento eucaristico, che comporta il perdono, trasmette una grande forza e rappresenta un grande aiuto. L’eucaristia e la preghiera sono, a condizione che se ne abbia il dono, due formidabili sostegni per l’essere umano”.
Naturalmente la vita interiore dell’uomo di fede Henri Grouès, rimasto frate cappuccino nel cuore, interessava al baraccone mediatico assai meno delle iniziative clamorose e provocatorie che avevano come protagonista l’abbé Pierre.
Stupisce infatti, scorrendo il suo Testamento, leggere espressioni di grande semplicità, per esempio a proposito del consiglio ricevuto in gioventù dal suo padre spirituale nel dire quando ci si sente soli l’Ave Maria: “L’ho fatto e l’ho fatto a tal punto che a ottant’anni suonati non riesco ad addormentarmi se non dicendo delle Ave Maria”.
O lo stupore provato il mattino di Pasqua ad Assisi nel sentire gli echi di tutte le campane: “Quello che ci è stato detto allora di san Francesco, di cui ignoravo quasi tutto, mi ha fatto comprendere che l’intensità dello spogliamento dell’adorazione, può condurre all’intensità dell’azione, e al tempo stesso, all’unione con tutti gli uomini del mondo”. O ancora la riscoperta, in età adulta, del “dialogo con l’angelo custode”.
Uomo di grande azione, l’abbé Pierre non esita ad affermare: “Vivo nell’impazienza della morte” perché “la morte è l’incontro meraviglioso, abbagliante, dell’Infinito, dell’Eterno, dell’Amore” e intanto non nasconde la sua forza: “Amo pregare…La preghiera è essenzialmente adorazione. Adorazione di un essere umano ferito dalle ferite dell’intera umanità”.
È originale la definizione che l’abbè Pierre dà del prete del domani: dovrà essere “un agente di contagio… deve essere l’animatore che fa esplodere il canto di ‘grazie’ della creazione verso il Creatore”.
Volendo riassumere la straordinaria vita spirituale di questo mistico con il mantello del pellegrino e i piedi per terra, possiamo riferire la sintesi da lui tentata, sempre nel Testamento, alla luce di quanto la vita gli ha insegnato.
Scrive infatti l’abbé Pierre: “L’Eterno è Amore. È questo il primo fondamento della mia fede. Il secondo fondamento della mia fede è la certezza di essere amato. E il terzo fondamento è la certezza che questa misteriosa libertà che è in noi non ha altra ragione d’essere, che di renderci capaci di rispondere con l’amore all’Amore” .
L’amore dunque è tutto e dobbiamo “fare di Cristo il cuore del mondo”, potrebbe essere questa la sintesi del Testamento, ripresa anche in quella Lettre à Dieu, di grande spessore spirituale, scritta proprio il 4 ottobre 2005, nella festa di san Francesco e contenuta in quel suo libro che tanto scalpore ha suscitato nella stampa.
L’abbé Pierre ribadisce l’Amore a Dio Padre, “plus que tout”, come cifra del suo essere “credente credibile” e “credente amante”, un amore nonostante tutto, anche non comprendendo, nella certezza che “morire è, che uno lo creda o no, Incontro” con quella presenza che è Amore.
Un Testamento davvero impegnativo quello lasciato dall’abbé Pierre che, prima di morire, ha raccomandato ai suoi amici: “Sulla mia tomba, al posto di fiori e corone, portatemi le liste di migliaia di famiglie, di migliaia di bambini ai quali avrete potuto dare le chiavi di una vera abitazione”.

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