Quando muore un soldato
Otto lunghissimi anni in Afghanistan avrebbero dovuto essere sufficienti a far comprendere che la presenza in armi in quel Paese da parte dell’occidente non solo non è utile a nessuno ma rischia di diventare dannosa o tragica per tutti. Se dopo otto anni ci ritroviamo a piangere la morte di un altro giovane e il sentimento del dolore si mescola a quello della rabbia, significa che la pressione militare non può essere l’unica risposta o che quanto meno da sola si rivela insufficiente.
Il corpo senza vita di Alessandro, 25 anni e tanta voglia di vivere, ci urla di rivedere le nostre risposte e gli strumenti del nostro intervento e della nostra presenza nelle zone di crisi del mondo. La risposta del ministro della difesa è vecchia, superata dai fatti, paradossale. Non si può pensare ancora che la soluzione possa consistere nell’aumentare l’efficienza di mezzi e strumenti di guerra.
Caro signor ministro e se invece questa volta giurassimo sulla vita di Alessandro di invertire la tendenza fin qui seguita e rafforzassimo la cooperazione?
Se decidessimo di destinare alle popolazioni afghane le garanzie di sviluppo e di benessere che i Taliban non sono in grado di offrire, forse avremmo vinto insieme la prima battaglia. Taglieremmo l’erba sotto i piedi del terrorismo e creeremmo un consenso maggiore di quanto non riescano a fare le armi.