I profumi delle periferie
Le periferie parlano. Nel loro caos, dicono. Protestano contro chi se le è dimenticate e chi le ha progettate – disumane – senza un'agorà, una piazza, una panchina, un albero, un giardino. Le periferie ribollono perché non sanno contenersi nella loro promiscua marginalità. Non sempre riescono a dare un nome al proprio dolore o ne sbagliano la pronuncia. Hanno una pelle strana gli abitanti delle periferie e uno slang che è meglio di un filo spinato. Non le incontri per caso. Devi andarle a trovare. A far visita come alle signore nei salotti damascati. Ma non ti lasciano entrare se non sei conosciuto e, spesso, i tuoi accompagnatori ti mollano sul limitare. A un filo di dogana che tu non riconosceresti. M'è successo così a Vidigal a Rio e a Caracolì a Bogotà, a Korogocho e a Kibera a Nairobi e ad altre latitudini. La periferia ti sorprende in via Padova a Milano perché non è periferia. Dove le pareti delle case ancora parlano foggiano e salernitano ma gli abitanti no. Hanno i cibi di un altro profumo e non è lo stesso per tutti. Perché sono cinesi e peruviani e africani. E sarebbe anche bello se non fossero lasciati soli a parlare tra loro. Non integrazione ma incontro, non comprensione ma dialogo, non tolleranza ma riconoscimento. Non un antidoto ma dignità.