Relazioni pericolose
Investimenti, prestiti e servizi finanziari per un totale di 20 miliardi di dollari sono stati forniti negli ultimi due anni da 138 banche e istituti di credito occidentali a otto industrie di armamenti che producono “bombe a grappolo”: e questo nonostante il sostegno economico e la produzione delle cosiddette “cluster bombs” sia stato vietato dalla Convenzione siglata a Oslo lo scorso dicembre. Lo ha rivelato il recente dettagliato rapporto “Worldwide investments in cluster munitions: a shared responsability” pubblicato dalle olandesi IKV Pax Christi e di Netwerk Vlaanderen con la consulenza della società di ricerche Profundo.
I produttori
Metà delle industrie occidentali, che producono tra l’altro di “cluster bombs”, hanno sede negli Stati Uniti (Alliant Techsystems ATK, L-3 Communications, Lockheed Martin e Textron); due sono basate in Corea del Sud (Hanwha e Poongsan), una in Turchia (Roketsan) e una a Singapore (Technologies Engineering). Capofila per investimenti il colosso bancario HSBC con sede a Londra (650 milioni di dollari di investimenti) seguito da Goldman Sachs, Merril Lynch, Deutsche Bank, JP Morgan, Citigroup, Barclays e Bank of America. L’elenco comprende anche una banca italiana, IntesaSanpaolo, per i propri rapporti con la statunitense Lockheed Martin, una delle più grandi aziende produttrici di armi al mondo.
Nonostante il gruppo IntesaSanpaolo già nel luglio del 2007 avesse annunciato di “sospendere definitivamente la partecipazione a operazioni finanziarie che riguardano il commercio e la produzione di armi e di sistemi d’arma”, proprio nello stesso periodo – spiega il rapporto olandese a pg. 44 – “Lockheed Martin ha rinnovato la sua attuale apertura di credito rotativo (cioè un prestito) di 1,5 miliardi di dollari fino a luglio 2012. Intesa Sanpaolo ha contribuito con 52,5 milioni di dollari al cartello (syndicate) delle 31 banche” erogatrici del prestito.
Appare singolare però la conseguenza temporale: mentre il 10 luglio 2007 il gruppo IntesaSanpaolo emanava la nuova policy sugli armamenti – che afferma come “con decorrenza immediata, le strutture territoriali e centrali del Gruppo Intesa Sanpaolo devono operare in linea con il divieto di porre in atto nuovi finanziamenti alla clientela per operazioni aventi a oggetto commercio e produzione di armi o sistemi di arma” – il 26 luglio 2007 la stessa banca rinnovava con il suddetto cartello di 31 banche il credito rotativo a Lockheed Martin (industria bellica americana tra i principali produttori al mondo di bombe a grappolo, ndr) fino al 2012.
Come assicura a Luca Rasponi di Peacereporter una “fonte interna a Intesa Sanpaolo”, i “contratti come quello con Lockheed Martin hanno tempi di realizzazione di diversi mesi”. Per cui la vicinanza tra rinnovo del prestito e nuova policy sugli armamenti “è solo una coincidenza: il controllo sulla concreta applicazione della policy è tuttora in corso di affinamento” – afferma la fonte. “Il contratto con il colosso Usa della difesa, poi, è in syndication, cioè in comune con altre 30 banche. Cosa che complica eventuali exit strategies. Da ultimo, l’investimento di Intesa Sanpaolo a favore di Lockheed Martin è non finalizzato. Ma l’azienda statunitense produce quasi esclusivamente armi” – sottolinea Rasponi.
Proprio per questo il rapporto delle Ong olandesi afferma (pg. 83) che “Intesa Sanpaolo deve escludere i produttori di bombe a grappolo dai suoi asset management e dalle attività d’investimento. Non solo dai prestiti”. E che la banca “non deve ammettere eccezioni e porre fine a ogni relazione con le aziende produttrici di munizioni cluster, a meno che vi siano impedimenti legali” e che – in caso vi siano tali eccezioni – “la banca deve renderle note al pubblico attraverso il proprio sito internet”.
Accordi internazionali
In attesa che la Convenzione di Oslo sulle cluster bombs sia legalmente vincolante – per arrivare al limite di 30 mancano sette ratifiche da parte di 100 dei Paesi firmatari – ci sono però già Stati e istituzioni che hanno deciso di seguire i dettami dell’accordo internazionale. I parlamenti di Belgio, Irlanda e Lussemburgo hanno già approvato delle leggi che vietano gli investimenti nelle cluster bombs, mentre i fondi pensione di Nuova Zelanda, Norvegia e Svezia e numerose banche etiche di tutta Europa già da tempo hanno troncato qualsiasi legame con le compagnie produttrici. “Le legislazioni nazionali in materia sono sicuramente molto utili, però adesso è arrivato il momento che anche le istituzioni finanziarie facciano la loro parte ed escano da questo business” – ha affermato Esther Vandenbroucke, esponente di Netwerk Vlaanderen e tra gli estensori del rapporto.
Per questo le due associazioni insieme con la Campagna internazionale per la messa al bando delle cluster (Cluster Munition Coalition) hanno lanciato il nuovo sito “Stop Explosive Investments” dove propongono numerose azioni tra cui quella di inviare una lettera alle banche alle quali si chiede di disinvestire dalla ditte che producono bombe cluster.
“Il rapporto delle ONG olandesi è un’ulteriore conferma dei legami che esistono tra la finanza internazionale e il mondo della produzione armiera” – ha commentato Francesco Vignarca, coordinatore della Rete italiana Disarmo – “E dimostra come, per creare una vera prospettiva di disarmo, non bisogna solo lavorare sull’ambito politico, ma anche sugli intrecci economici che perpetuano una situazione che va a vantaggio di pochi a scapito della collettività. E che porta le armi nel cuore dei conflitti dove sono gli ultimi del globo – in particolare i bambini – a pagare con la propria pelle”.
“Nel rapporto troviamo molti Paesi che hanno firmato la Convenzione per la messa al bando delle bombe e munizioni cluster, ma le cui banche e attori finanziari continuano a sostenere le imprese che producono tali armi” – aggiunge Andrea Baranes della Campagna Crbm. “Questo dimostra ancora una volta di come sia necessario e urgente che le banche migliorino la trasparenza e le informazioni che forniscono in merito a tutti i rapporti che intercorrono con l’industria delle armi”.
“I legami della finanza con la produzione armiera e il totale disinteresse per la dimensione umana e umanitaria non può che stimolare richieste chiare e non eludibili da parte della società civile, volte a obbligare gli Istituti bancari a reali politiche di responsabilità sociale non solo di facciata” – commenta Giuseppe Schiavello della Campagna italiana per la messa al bando delle mine – “A tale proposito la nostra campagna proporrà alle associazioni impegnate a vario titolo nella difesa dei diritti umani e del disarmo di promuovere insieme un disegno di legge nazionale teso a proibire il sostegno finanziario ad aziende coinvolte nella fabbricazione di ‘cluster bombs’, sub-munizioni e mine antipersona, e di estendere il divieto anche al finanziamento tramite i fondi pensione”, conclude Schiavello.
L’Italia in ritardo
Intanto lo scorso febbraio è stato raggiunto il quorum di trenta ratifiche necessario per l’entrata in vigore – che avverrà il 10 agosto – della Convenzione che mette al bando le bombe a grappolo (Convention on Cluster Munitions - CCM). Si tratta di “un passo fondamentale nell’agenda del disarmo mondiale” – ha commentato il Segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, aggiungendo che “la ratifica dimostra la repulsione nei confronti di queste armi, inaffidabili e inaccurate”. Ban ha invitato gli Stati mancanti all’appello a ratificarla “senza ritardi”. Tra questi l’Italia, nonostante sia stata tra i primi 100 firmatari nel dicembre 2008 a Oslo. In attesa che il nostro Paese ratifichi la Convezione, la Campagna Italiana chiederà al Parlamento di promuovere un’immediata moratoria unilaterale sulla produzione, uso e commercio delle cluster bombs.