Maschio e femmina li creò

Nonviolenza e differenza di genere: prima di ogni altra cosa, è il rispetto della diversità di genere che deve guardarsi con occhi nuovi. Per andare oltre ogni possibile conflitto.
Elizabeth Green (Pastora battista)

Parlando di nonviolenza, non si fa sempre caso a un aspetto apparentemente ovvio: il semplice dato che alcuni sono uomini mentre altri sono donne. Una differenza di genere che scompare nel linguaggio dell’“universale neutro” e che oggi, invece, vogliamo far emergere. Dividerò la mia riflessione in tre parti: la violenza in rapporto alla differenza di genere; la nonviolenza declinata rispetto al genere e la ricerca di una nonviolenza per donne e uomini al di là degli stereotipi di genere.

Violenza e differenza 

Prendiamo come punto di partenza uno degli ultimi libri di Leonardo Boff, Spiritualità per un altro mondo possibile (Brescia, 2009). Analizzando la “fase planetaria” nell’evoluzione dell’umanità e della terra (l’epoca della globalizzazione), Boff mette a confronto due paradigmi della convivenza umana, “il paradigma del nemico e del confronto” e quello “dell’ospite e dell’alleanza”. Tutto il libro vuole aiutarci a spostarci dal primo che ha dominato il rapportarsi tra individui e popoli finora, al secondo, unico modo di garantire la sopravvivenza del pianeta. 

Una politica identitaria è alla base degli Stati moderni per i quali è fondamentale individuare l’altro, il nemico, per poter affermare se stessi. Ma chi sono coloro che, in questa ottica, sono stati costruiti come altri? Secondo Boff, “il primo altro, il più immediato, è l’altro nel genere stesso: la donna”. Poiché a organizzare e a dare nome al mondo è l’uomo. Proprio come affermava Simone de Beauvoir, “la donna si determina e si differenzia in relazione all’uomo, non l’uomo in relazione a lei; è l’inessenziale di fronte all’essenziale. Egli è il Soggetto, l’Assoluto; lei è l’Altro (Simone de Beauvoir, Il secondo sesso, Milano, 1961). 

La differenza di genere e il “paradigma del nemico e del confronto”, alla base della violenza e della guerra sono in stretta relazione, anzi si interpretano reciprocamente. Nel parlare di violenza non possiamo eludere il dato che la violenza è fondamentalmente maschile. 

Questo vuol dire due cose: in primo luogo che l’identità nazionale, che si costruisce e si difende in antagonismo all’altro, è maschile. Le guerre, anche se ci partecipano le donne, difendono gli interessi di una cittadinanza cui le donne stentano a fare parte. In secondo luogo, il nemico viene simbolicamente costruito come “femmina”. La guerra è dell’uno contro l’altro, il nemico ridotto a oggetto. E nell’ordine simbolico maschile, l’altro viene letto al femminile.

Il “paradigma del confronto e del nemico” interpreta la relazione tra i generi. Si passa dalla violenza simbolica alla violenza reale. Nel contesto del conflitto armato, le donne diventano il nemico, soffrendo le conseguenze della violenza maschile in due modi. Il primo è quello bellico. Il nemico viene offeso tramite l’umiliazione delle “sue” donne. Nello stupro di guerra la violenza maschile passa attraverso il corpo delle donne. E poi ci sono le cosiddette “conseguenze collaterali” del conflitto: donne e bambine diventano in primis vittime della violenza maschile. Ma per essere vittime di tale violenza, non occorre essere in guerra perché, in Italia, ogni tre giorni una donna è uccisa per mano di un marito, un compagno o un fidanzato e, a livello mondiale, la violenza maschile è la prima causa di morte delle donne! Il secondo modo, quindi, in cui la donna è vittima della violenza maschile è la violenza domestica. 

Volontà divina?

Egli dominerà su di te” recita il testo biblico. Dalle prime pagine delle scritture apprendiamo che, in seguito al gesto ardito della prima coppia umana, la relazione tra i generi sarebbe stata all’insegna del dominio maschile e della subordinazione femminile. Questa relazione distorta e ineguale tra uomini e donne è segno dell’incrinatura che ha subito la relazione tra l’essere umano e Dio e simbolo di ogni altra relazione incrinata, intesa cioè come amico-nemico; sé-altro; soggetto-oggetto ecc.. Nei suoi duemila anni di storia, il cristianesimo raramente ha compreso che il “Io moltiplicherò grandemente le tue pene e i dolori della tua gravidanza; con dolore partorirai figli; i tuoi desideri si volgeranno verso tuo marito ed egli dominerà su di te” (Gen 3,16) non è una prescrizione di come dovrebbero andare le cose bensì una triste descrizione di come vanno le cose in un mondo che si è allontanato da Dio. In altre parole, il cristianesimo ha visto (è in alcuni casi tuttora vede), il dominio dell’uomo sulla donna e la violenza maschile non come espressione del peccato ma come volontà divina. 

Un cenno meritano, poi, le persone omosessuali. In uno saggio recentemente tradotto in italiano, lo studioso francese Daniel Borrillo mostra il nesso tra la discriminazione delle donne e quella delle persone omosessuali: la violenza sulle donne è connessa alla violenza cui sono oggetto i gay e le lesbiche. Poiché, come abbiamo visto, l’identità maschile è costruita in opposizione alla donna, tutto ciò che viene percepito come un avvicinamento alla femminilità, come l’omosessualità, è temuto: “Per un uomo eterosessuale, trovarsi a contatto con un uomo effeminato risveglia l’angoscia causata dai caratteri femminili della propria personalità”. Borrillo, perciò, considera l’omofobia un elemento costitutivo dell’identità maschile e “sessismo e omofobia appaiono quindi chiaramente come le due facce di un medesimo fenomeno sociale” che sfocia in violenza contro il nemico, siano esse donne, gay e lesbiche, o qualsiasi persona che è stata costruito come ‘altra’”. 

La nonviolenza 

Invece di andare allo scontro violento, si tratta di costruire relazioni all’insegna della sollecitudine per l’altro. Attitudine privilegiata dalle donne, le quali “sono legate direttamente alla vita che ha bisogno di cura, come nella maternità, nell’alimentazione, nell’assistenza durante le malattie” (L. Boff). Tali caratteristiche, “non sono esclusive delle donne, ma sono proprio del principio femminile, il quale si trova anche nell’uomo”. L’arte di “far convivere, col minor logorio possibile, gli opposti” appartiene alla “donna, con la sua presenza di donna, madre, sposa, compagna e consigliera” e via dicendo (Leonardo Boff, Grido della terra, grido dei poveri. Per una ecologia cosmica, Assisi, 1996). Boff non è l’unico a voler arruolare le donna nella causa della pace e della nonviolenza. Anzi, le sue idee rispecchiano quelle espresse da Giovanni Paolo II nel 1995 nel suo messaggio per la Giornata mondiale della pace in cui affidò alle donne “l’educazione alla pace”. 

In tanti sostengono che le donne abbiano un’attitudine speciale per la pace e la nonviolenza, in virtù di caratteristiche legate alla maternità. Tuttavia l’idea che le donne siano naturalmente propense alla pace e alla nonviolenza non regge all’evidenza dei fatti. Nel suo commento al messaggio del Papa, Lilia Sebastiani ci ricorda che paternità e maternità sono simboli archetipici e “non modelli concreti di esistenza femminile”. Afferma di più, sono proprio prodotti dall’ordine simbolico maschile con effetti “ristretti e limitanti, oltre che sottilmente discriminatori” (Lilia Sebastiani, Donna e Pace. Una liberazione che libera, Milano, 1995). Non sto dicendo che la vita e pratica delle donne non abbia qualcosa da insegnarci circa la nonviolenza (anzi!). Ciò che non condivido è, da un lato, l’invocazione di un cosiddetto principio femminile che si rivela tutto declinato al maschile e, dall’altro, che alle donne siano affidate pratiche di pace e di nonviolenza. Perché?

In primo luogo perché tale proposta lascia intatta la maschilità come finora è stata declinata, ovvero non sottopone a una critica il modo in cui la maschilità si è costruita secondo il paradigma del nemico e dello scontro. Inoltre, l’appello alla femminilità tende a esimere gli uomini dalle loro responsabilità. È come se gli uomini dicessero alle persone con meno potere sociale, politico ed economico, ossia le donne, di aggiustare tutte le cose che non vanno. È inutile auspicare che le donne “siano testimoni, messaggere e maestre di pace nei rapporti tra le persone e le generazioni, nella famiglia e nella vita culturale, sociale e politica delle nazioni, in modo particolare nelle situazioni di conflitto e di guerra” (Giovanni Paolo II, Donna, Educatrice alla pace) senza adoperarsi per i cambiamenti necessari all’entrata delle donne nei luoghi decisionali della politica, largamente precluse alle donne stesse.

In secondo luogo, il cosiddetto principio femminile viene invocato in modo da confermare le donne nel ruolo di “vittime”. Tra le caratteristiche che vengono aggiudicate “femminili” figurano, per esempio, l’amore, l’ascolto, il perdono – attitudini poco spendibili nell’attuale arena politica, ma molto spendibili nella sfera domestica. Ebbene, è a causa di queste caratteristiche e altre analoghe che le donne rimangono in situazioni di violenza. Se nella coppia è l’uomo a promettere di cambiare, di non picchiarla più, la donna continua ad amarlo. Ricucire, perdonare, dimenticare. 

Non sono d’accordo, quindi, con una certa mistica della femminilità che considera le donne più propense alla pace e alla nonviolenza. Quello che mi trova d’accordo, invece è il nesso individuato da Virginia Woolf tra la posizione subalterna della donna e la violenza bellica degli uomini. Detto altrimenti, Boff in parte ha ragione ad affermare che: “La pace risulta da strategie di riscatto del femminile nella società e dal riconoscimento della dignità delle donne, da relazioni più ugualitarie e condivise tra i generi e da quegli atteggiamenti di collaborazione paritetica tra uomini e donne che non vengono meno, di rispetto e valorizzazione delle rispettive differenze”.

Quali sono le caratteristiche custodite da una cultura delle donne utili per la risoluzione nonviolenta dei conflitti? Per dire queste caratteristiche ho scelto tre parole.

La prima parola è relazione. Per le donne, quindi, tessere relazioni è fondamentale per la nostra stessa identità. Questo non ha niente a che fare col fatto che la donna spesso viene considerata solo in relazione all’uomo (come madre, sposa ecc.) ma richiama il dato che la donna si costituisce all’interno di una rete di relazioni. Non è il paradigma del nemico e dello scontro a guidare le sue azioni, bensì quello dell’“assieme a”.

La seconda parola chiave è racconto. Come tessono le relazioni le donne? Mediante il racconto. Noi donne ci raccontiamo. Con la “filosofia della narrazione” (cfr. Adriana Cavarero) ne esce un’identità dialogica in cui l’alterità di ognuna è salva da “identificazioni” e “confusioni” perché in gioco sta l’unicità e irripetibilità di ciascuna. Credo che questa prassi delle donne di raccontarsi e quindi di ascoltarsi, possa essere preziosa per il dialogo e per la pratica della nonviolenza.

La terza parola è realtà quotidiana. A prendersi cura della realtà quotidiana di donne e uomini, bambini e bambine, anziani e anziane sono le donne. Non è solo per amore di relazioni paritarie che le ultime generazioni di donne hanno insistito che gli uomini partecipassero a tutte le azioni necessarie per la cura, avessero a che fare con pavimenti da pulire, piatti da lavare, compere da fare, bambini da vestire, pasti da cucinare: condividessero cioè le faccende domestiche!

Bisogna che tutta la sapienza custodita dalle donne affluisca nello spazio politico. 

Relazione, racconto, reale quotidiano, tre parole che vengono fuori dalla riflessione delle donne a partire dalla nostra esperienza. 

Oltre gli stereotipi

Ciascuna persona, come afferma Boff, “collabora effettivamente a una strategia di pace solo se fa di sé un soggetto di irradiazione di pace, con parole e gesti”. La pace e la nonviolenza partono da me, esattamente come ha affermato il movimento delle donne: “Praticare la nonviolenza significa che, per cambiare il mondo, bisogna partire da sé, mutuando la pratica femminista agli albori degli anni Settanta che sosteneva che il privato è politico”. E poiché i nostri sé sono sessuati, al maschile o al femminile, è proprio da lì che bisogna partire!

Non c’è dubbio che il movimento delle donne ha portato, dagli anni Sessanta in avanti, una rivoluzione silenziosa e nonviolenta. La nostra comprensione di genere sta cambiando e a soffrire di più per tale cambiamento è proprio l’identità maschile. Non c’è da scartare che la violenza sulle donne sia uno dei modi dell’uomo per mettersi ai riparo da un’identità maschile fragile. Invece di assumersi la propria responsabilità, l’uomo si rifugia all’interno di una nuova violenza. Una risposta nonviolenta, però, sarebbe, quella di mettere in discussione gli stereotipi attraverso i quali la propria maschilità è stata costruita. È ciò che fanno gruppi come Maschile plurale. Mi stupisce che le Chiese sembrano ignorare tale movimento. Mi stupisce perché proprio al centro del messaggio cristiano abbiamo una figura maschile che ha fatto della nonviolenza la sua ragion di vita. Gesù di Nazareth.

Ritengo che il cristianesimo abbia qualcosa di fondamentale da dire su nonviolenza e differenza di genere! Sicuramente ci sarebbero molti modi di declinare Gesù come uomo nonviolento. 

In primo luogo la traiettoria di Gesù parte da una rinuncia. Mi riferisco al famoso inno della Lettera ai Filippesi in cui è scritto “che pur essendo in forma di Dio, non considerò l’essere uguale a Dio, qualcosa a cui aggrapparsi gelosamente, ma spogliò se stesso, prendendo forma di servo, divenendo simile agli uomini” (Fil 5,6s.). Alla base della vita di Gesù, quindi, era la rinuncia a tutti i privilegi e il potere attribuito a Dio. Tale rinuncia sta alla base della vita cristiana tout court ed è fondamentale nella risoluzione dei conflitti. È chiamato alla rinuncia proprio colui intorno al quale gira l’intero ordine socio-simbolico maschile, ossia l’uomo (E. Green, Il Dio sconfinato, Torino, 2007).

In secondo luogo, Gesù instaura un regime all’insegna del mutuo servizio. Egli respinge un ordine basato sul dominio di alcuni e la subordinazione di altri (Mt 10, 45-45). Capovolge le gerarchie dell’epoca mettendo al primo posto l’altro, il servitore, il fanciullo. Anzi, trasformò il paradigma di amico-nemico in amico-amico come ben vide Martin Luther King: “L’amore è l’unica forza capace di trasformare un nemico in amico”.

In terzo luogo, la rinuncia al potere imperiale si traduce in una scelta nonviolenta di protesta. Gesù preferì subire la violenza che non sottrarsi ad essa o infliggerla ad altri. 

Bastano questi pochi spunti per vedere come l’uomo-Gesù è modello di una maschilità diversa, di una nonviolenza maschile. 

Lo stesso Boff indica come un’integrazione degli opposti può essere possibile, prima di tutto accogliendo la natura bi-polare dell’esistenza come facente parte della condizione umana per “rafforzare il polo luminoso di questa contraddizione in maniera che esso possa mantenere sotto controllo, limitare e integrare il polo opposto, e far così emergere la tanto desiderata pace”.

E concludo con Raimon Panikkar, che respinge la divisione della realtà “tra un io (me stesso) e un non io (un non me stesso) che non cessa mai di essere dualista” a favore della “a-dualità, che è quella di una connettività radicale.

 

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