Tra la croce e la spada
Pensare una comunicazione nonviolenta in quanto espressione di una società nonviolenta è un’utopia e nella visione evangelica tale resterà sino al giudizio universale. Occorre tuttavia riconoscere che, rispetto al passato, la rappresentazione della nonviolenza nei media ha compiuto dei progressi e quindi si può lecitamente sperare in qualche nuovo passo in avanti.
Resta tuttavia un’utopia pensare che l’intera catena informativa mondiale, sempre più interconnessa e globalizzata, nella sua totalità si possa ispirare ai valori e alla visione propria della nonviolenza.
Ci chiediamo quindi: è possibile che la comunicazione avvenga con il metodo della nonviolenza? È’ possibile comunicare nei media la nonviolenza, la sua cultura, le sue realizzazioni, le sue visioni di società e di rapporti interpersonali? La nonviolenza è un argomento che interessa i media? Da che cosa dipende lo scarso impatto e il poco spazio che nei mezzi di comunicazione viene riservato normalmente alla nonviolenza?
Mentre poniamo i media sotto la lente critica della nostra riflessione, per non cedere alla tentazione di una visione pessimista della storia – tipica dei profeti di sventura – occorre anche misurare quanto cammino la Chiesa e la società hanno percorso negli ultimi decenni e quali traguardi positivi siano stati raggiunti dai movimenti per la pace. Una verifica del cammino percorso può servire, infatti, a mettere a fuoco i nuovi traguardi.
Violenza e nonviolenza
Si potrebbe affermare che, mentre si registra una crescita della coscienza sociale nei confronti della pace e della nonviolenza, la degenerazione del potere economico e la corruzione del sistema politico – più rappresentativo di lobby che del bene comune – impediscono un’equa rappresentazione della diffusa anima pacifista nei canali importanti della comunicazione multimediale. Nel Paese c’è più voglia di pace e nonviolenza di quanto i media riescano a esprimere e a raccontare.
Siamo tutti convinti che la nostra prospettiva non si possa fermare all’ambito dei media, nei quali “la violenza la fa spesso da padrona” e si mostra la violenza “come unico modo di risolvere i conflitti” (Enrico Cheli). La nonviolenza investe tutti gli ambiti della vita, ogni ambito comunicativo: la comunicazione interpersonale, quella a carattere educativo o informativo, religioso, politico. Preliminarmente, dobbiamo capire quanta nonviolenza sprigioniamo nel rapporto con gli altri, nel nostro impegno nel sociale, nel politico e nell’ambito della Chiesa.
Oggi ci troviamo, senza averlo mai sperato, in una società inospitale per i deboli e i diversi, e nella quale l’aggressione verbale, fisica, ideologica, insieme alla manipolazione di verità e menzogna, è un distintivo di buona cittadinanza.
I due tipi di comunicazione – quello individuale e quello pubblico – interferiscono tra loro sebbene i media abbiano la forza di orientare la gran parte della gente nella scelta di gusti, mode, pensieri dominanti, che ci danno una patina di modernità. La comunicazione mediatica in tutte le sue espressioni ormai è come una presenza globale che fascia, con una rete invisibile, il mondo intero. È una sfida a tutti i tradizionali agenti educativi.
Il sonnifero della nonviolenza
I media hanno un peso rilevante nella formazione, specialmente dei giovani. E dire giovani è dire futuro. Oggi è cominciato già il mondo di domani. Una proposta lungimirante della nonviolenza non può disinteressarsi del domani, quando la vita sulla terra sarà concentrata nelle megalopoli gestite dalle reti informatiche. Nei prossimi decenni si andrà verso città sempre più sofisticate e caotiche. Alcuni sociologi già parlano di hitech city, dove i ritmi di vita saranno scanditi, in maniera fantastica ma anche inquietante, dai servizi digitali.
Con l’era digitale cambiano anche coordinate e ambiti della violenza, le cause del disagio e della discriminazione sociale. Ed è proprio nei media che si può avere una rappresentazione mistificatrice della nonviolenza. Perfino scene di guerra possono apparire inserite in un contesto che presenta i combattenti quali migliori agenti della pace e del diritto internazionale.
In questo nostro tempo, in cui assistiamo a una maggiore attenzione, in parte reale e in parte virtuale, nei confronti di tematiche tipiche della società nonviolenta –volontariato, diritti del terzo mondo, ripudio della guerra, allargamento del servizio civile, dialogo interreligioso ed ecumenico – paradossalmente sperimentiamo anche una crescita esponenziale della violenza individuale e collettiva nei media, con la narrazione semplicistica di sanguinosi conflitti internazionali, di corruzioni economiche e degenerazioni delle politiche democratiche. Sempre di più, magari in nome del mercato che vive sulla concorrenza, ci si chiede di adattarci al ricorso disinvolto di parole e di strumenti tipici della nonviolenza – quali ad esempio l’obiezione di coscienza – finalizzati a ottenere consensi a modelli statuali autoritari e a modelli di società normalizzate nella disuguaglianza dei diritti.
La violenza, propinata a piccole dosi soft nel contenitore accattivante dell’immagine, sembra aver acquistato dignità formale che la rende risolutiva delle nostre paure. Viviamo in un tempo in cui si accetta di barattare più sicurezza con meno diritti. In tanti tessono l’elogio della nonviolenza come via privilegiata per appianare i contenziosi esistenti. Siamo al sonnifero della nonviolenza distribuita nella realtà virtuale quale toccasana, mentre nel mondo reale milioni di persone soffrono violenze inaudite, sia come popoli sia sul piano individuale. Si pensi alla rappresentazione del mondo del lavoro!
I media, con tutto il loro scintillio, raggiungono la massima ingiuria tramite la confezione del prodotto ed esercitano la massima violenza nei confronti di problemi e categorie che disturbano: non si contrastano apertamente e, quando disturbano troppo, semplicemente si ignorano. Tacerne è come decretarne la loro non esistenza.
Stare fuori dal mondo virtuale creato dalla televisione e da internet, significa oggi stare fuori dalla realtà e dalla considerazione della gente.
La comunicazione nonviolenta prevede di mettere le diversità di colore, di cultura, di storia, di religione, in comunicazione tra loro, riconoscendole tutte come esperienza e patrimonio dell’essere uomini e donne uguali nella dignità fondamentale di persona.
Le rivoluzioni sono da condividere quando sono vere rivoluzioni. E sono vere rivoluzioni e vanno sostenute quando promuovono ogni diritto e rimuovono la discriminazione della differenza. E il principio vale pure per la comunicazione.
Quando è nonviolenta, la comunicazione è priva di stereotipi che fanno l’interesse del potere che semina ideologie per dividere.
La forza dell’amore
Per noi cristiani una visione nonviolenta della vita deriva direttamente dal Vangelo. Nel racconto straordinario della vita di Gesù, c’è un rovesciamento dei normali canoni delle religioni, che vedono l’uomo a servizio di Dio separato da una distanza immensa. Con l’incarnazione c’è un capovolgimento: il figlio di Dio dà la sua vita per l’uomo. Noi ora arriviamo a morire per Dio perché lui è morto per noi. Gesù è vissuto ed è morto per manifestare quanto Dio ci ama. È davanti a questo avvenimento che si coglie la novità cristiana e si percepisce che una storia di amore non può tramandarsi attraverso nessun segno e gesto di violenza senza tradire i suoi attori: Dio e l’uomo.
Curiosa coincidenza tra Vangelo e Gandhi, il maestro nella modernità del satyagraha (cioè nonviolenza, adesione alla verità, forza della verità, forza dell’amore e forza dell’anima).
Se noi teniamo presenti queste grandi dimensioni della storia umana e della storia della salvezza, vediamo che l’umanità è molto distante dal traguardo che speravamo possibile.
Se proviamo a usare l’espressione “forza dell’amore” invece di nonviolenza, il discorso appare più facile. Ci rendiamo conto come scarso sia l’interesse alla forza dell’amore nella pubblica opinione.
Eppure, mentre parlando di nonviolenza può sembrare che il tema interessi solo una parte minoritaria della società, se diciamo amore e la sua forza come via per cambiare il mondo, il tema interessa tutti. Ma non tutti parlano di amore con lo stesso significato. I media sono zeppi di amore = sesso ma sono poverissimi di amore = dono disinteressato di sé.
In questo discorso dell’amore entra anche la nonviolenza. “Essa – sosteneva Gandhi – non può essere di alcun aiuto a chi non possiede una fede profonda nel Dio dell’Amore”. E aggiungeva: “Essa è un potere che può essere posseduto in eguale misura da tutti – bambini, ragazzi, ragazze e uomini e donne adulti, posto che essi abbiano una fede profonda nel Dio dell’Amore e che quindi possiedano un ugual amore per tutto il genere umano. Quando la nonviolenza viene accettata come legge di vita essa deve pervadere tutto l’essere e non venire applicata soltanto a situazioni isolate. È un profondo errore – conclude Gandhi – supporre che questa legge sia applicabile per gli individui e non lo sia per le masse dell’umanità”.
Il metodo nonviolento
Ancor più ai giorni nostri serve, dunque, diffondere il metodo della nonviolenza.
La violenza è tra i caratteri fondativi della stessa società e condiziona moltissimo le persone. Gandhi riteneva che la nonviolenza è la legge della razza umana ed è infinitamente più potente della forza bruta. Ma l’umanità è molto lontana dall’accogliere questa legge che risponde meglio di altre alla sua razionalità.
Se il sistema che modula la nostra vita sociale è intriso di violenza e competizione, e viene sostenuto come fosse il migliore dei mondi possibili, la sua rappresentazione non può che essere fedele al principio che lo guida, dando così spazio ai comportamenti e ai metodi della violenza, alla forza e alla prepotenza ritenuti normali e fecondi dalla sensibilità maggioritaria della gente, riservando invece piccoli ritagli, attenzioni estemporanee alla nonviolenza che richiede, più di ogni altra cosa, il senso di condivisione e la disponibilità ad accollarsi su di sé qualcosa perché gli altri stiano bene.
Tanto è radicata la visione trionfante della violenza che, per secoli, ha contagiato incontrastata anche l’esperienza cristiana, e specialmente le sue istituzioni. Era normale, in lunghe epoche passate, essere cristiani, predicare l’amore e, nel contempo, ricorrere alla tortura, alla persecuzione dei dissidenti; violare, guerreggiare, contendersi la roba. Una stretta contiguità tra la croce e la spada.
Dare spazio alla nonviolenza nella comunicazione è, anzitutto, una scelta di libertà e di verità. Cosa decidiamo di comunicare? È affidabile la nostra comunicazione? Questi due interrogativi, se rivolti a operatori dell’informazione, richiedono l’esame della struttura e del funzionamento dei media. Quasi mai l’operatore dell’informazione ha larghi spazi di manovra nell’ambito del proprio lavoro. Anziché puntare il dito solo sui giornalisti, occorre interloquire con gli editori, tanto più ora che l’informazione viene trattata come una merce che deve rendere profitto.
Quante più persone saremo capaci di vivere e proteggere la nostra libertà, nell’ambito pubblico e privato, tanto più potremo esigere il rispetto della verità, avvicinandoci così alla possibilità di una comunicazione globale ispirata alla nonviolenza intesa come forza dell’amore.
Le nuove tecnologie informatiche hanno reso miracolosa e affascinante la comunicazione rendendola globale e rapidissima. Siamo entrati in una nuova epoca della storia umana dove si rischia il primato della tecnologia sull’uomo che comunica. Ci stiamo abituando a vivere due vite parallele: quella reale, di ogni giorno, e quella virtuale, dove le fatiche e le sconfitte della vita sono un ricordo. E la vita virtuale può diventare un rifugio.
Il contesto informatico è la nuova frontiera nella quale occorre trasmigrare con tutto il patrimonio della nonviolenza.
Può essere di qualche aiuto vedere che nella Chiesa ci sia ormai una crescente consapevolezza e iniziative concrete per rendere l’evangelizzazione compatibile con la nuova comunicazione. Dove l’uomo giunge con la sua mente e la sua capacità creativa, lì nasce contestualmente anche il problema della libertà e della verità: operare per il bene piuttosto che per il male, per la verità o la menzogna, per la liberazione o l’asservimento.
E, pertanto, rimane sempre la necessità di un’iniziativa nonviolenta. Di persone che continuano a credere alla forza dell’amore quale levatrice di una storia nuova e diversa da quella finora conosciuta.