L’armonia delle relazioni
I conflitti cd di “seconda generazione” (per distinguerli da quelli cd di “prima generazione” tra gruppi, strati o classi sociali e che hanno a che fare con la redistribuzione delle risorse materiali), quelli cioè di vicinato, di quartiere, interculturali, di ambiente, sul posto di lavoro, familiari, scolastici e altri ancora che pongono problemi alla qualità della vita, alla realizzazione del sé, alla propria identità personale e sociale ci chiamano con sempre maggiore insistenza a interrogarci.
Da un lato, infatti, percepiamo la pressione sociale che va nella direzione dell’attribuzione d’importanza a una buona qualità delle relazioni interpersonali: in primis di quelle per loro natura più stabili e durature nel tempo, quali quelle all’interno della famiglia, della scuola. Luoghi questi di strutturazione e di nutrimento della personalità, dove avvengono l’acquisizione e la sperimentazione di modelli e schemi relazionali di base, riproducibili poi in altri contesti e occasioni; ma anche una buona qualità delle relazioni di vicinato, di quartiere, in contesti lavorativi o socio-sanitari.
La qualità di queste relazioni è un aspetto sempre più preso in considerazione da parte della collettività. Anche a livello economico, si è rivelata l’insoddisfazione della valutazione del benessere, del grado di crescita di una collettività, di uno Stato attraverso il solo indice costituito dal PIL. Si è alla ricerca, cioè, di altri indici che tengano maggiormente in conto valori differenti rispetto a quelli esclusivamente materiali, valori quali, per esempio, il tempo libero a disposizione, il livello d’istruzione, la tutela dell’ambiente in cui si vive, e, appunto, la qualità delle relazioni che intratteniamo con gli altri.
Incontri difficili
Da un lato, quindi, il pensiero, sia individuale sia collettivo, in tema di benessere, di felicità, di crescita positiva percepisce l’importanza della buona qualità di queste relazioni e degli effetti benefici che ne possono conseguire; dall’altro, però, emerge ed è sempre più tangibile un disagio crescente nel gestire in modo armonico le relazioni stesse: si fa fatica a scuola tra compagni di classe, tra alunni e professori, tra insegnanti, e poi in famiglia, tra genitori e figli, all’interno della coppia, sul posto di lavoro.
Perché per i genitori è così difficile andare d’accordo con i figli, in particolare adolescenti; per gli insegnanti con gli studenti; per i ragazzi con genitori e insegnanti e in generale per tutti con il partner, i colleghi di lavoro, ma anche con “gli altri” in incontri più occasionali: per strada, nei luoghi sportivi e di ricreazione, della sanità?
Sia pure nella difficoltà di individuare delle risposte univoche, a ben vedere, elementi accomunanti possono essere ritrovati nella rinuncia, troppo precoce e troppo frequente, alla disponibilità di assunzione di compiti di cura e di responsabilità che abbiano per oggetto la relazione stessa; nell’incapacità di sostenere la diversità, di pensiero e identitaria, dell’altro nell’ambito della relazione-occasionale o stabile che sia; nella allarmante incompetenza a riconoscere e a codificare le emozioni, proprie e degli altri con i quali si intessono le relazioni e di decodificarle negli specifici e puntuali bisogni dei quali ogni singolo è portatore all’interno della relazione stessa.
Le parti in mediazione, nel narrarsi reciprocamente, in modo esplicito e implicito, il conflitto che rende difficoltosa e fragile la loro relazione, testimoniano spesso come si tratti di un degenerare rapido, di un meccanismo che procede autoalimentandosi e con effetto a cascata.
Si parte molto spesso da semplici diversità di opinioni, da diversi punti di vista; poi l’assenza di comunicazione, di un confronto schietto sui propri modi di pensare, la fatica di farlo e di saper individuare ed esternare i bisogni specifici che stanno dietro le istanze che si difendono, finiscono con il far chiudere sempre più nella propria personale visione delle cose.
I tentativi di dialogo, sempre più faticosi, sono in realtà un procedere parallelo di monologhi tra i quali non c’è vero ascolto; si fanno perciò sempre più radi.
In assenza di chiarimenti, la relazione procede sulla base di equivoci, di idee che ognuno si fa dell’altro, di fantasmi creati nei propri personali soliloqui.
Il circolo vizioso del conflitto
Ecco che allora vivere una relazione in questo modo provoca un grande disordine emotivo. L’armonia, la compostezza, la collaborazione, l’ordine del prima non si ricordano, nel nuovo disordine irrompe e domina l’irrazionale; si procede allora per gesti, inesorabilmente, afasici.
Il rischio è che si perda di vista, talvolta, perfino il proprio interesse o che si sia disposti a sacrificarlo, semplicemente per “avere la meglio” sull’altro, trasformatosi ormai in un avversario, in un temibile rivale.
È ben intuibile come, in una condizione del genere, circoli molta sofferenza, molta aggressività, molta violenza, non necessariamente di tipo fisico, ma anche quella simbolica del linguaggio, quella psicologica, che sa dove e come andare a ferire.
L’elemento che finisce col non far evolvere la situazione è quella sorta di senso claustrofobico che spinge a pensare che non ci si possa far niente: ognuna delle parti ritiene che non stia a lui o a lei tentare di cambiare le cose, ma che per lo più tocchi all’altro, al quale, coerentemente, si attribuisce la responsabilità dell’inizio dell’incrinatura della relazione.
La sofferenza, anziché un passaggio, è vissuta come uno stato in cui ci si installa, uno stato permanente, non temporaneo.
Ecco allora l’importanza delle pratiche di mediazione che:
innanzitutto, attivano nelle parti la speranza di un cambiamento; le aiutano a dar voce ai propri bisogni e alle proprie emozioni e a riconoscere e ad ascoltare quelle dell’altro, consentendo l’attivazione di competenze relazionali innate, presenti in ogni essere umano.
La mediazione come luogo per la narrazione e per l’ascolto permette l’incontro dell’altro, dell’essere umano che c’è dietro alla maschera che ogni ruolo impone di portare. Quando in mediazione avviene l’incontro con lo sguardo dell’altro, ne avviene insieme anche il riconoscimento della dimensione umana della quale, allora, diventa possibile la condivisione.
Allontanandosi da ogni generalizzazione, inserimento categoriale, “universalizzazione”, si comincia a comprendere l’importanza di “contare per uno” e di accettare che l’altro, diverso da me, non è che un “altro possibile” rispetto a me con il quale è possibile dialogare, ri-allacciare legami, rinegoziare patti. In questo sta il valore del reciproco riconoscimento, di questo si percepisce la forza e se ne intuisce lo sviluppo: il riconoscimento reciproco porta dentro di sé il seme dell’assunzione di una responsabilità verso l’altro, responsabilità che passa anche attraverso la cura della relazione che con l’altro mi trovo a vivere.
Il conflitto viene in questo modo a subire una trasformazione della quale il mediatore è un catalizzatore, una sorta di reagente che permette alla reazione di attivarsi, ma che poi scompare. Svolge il suo lavoro ponendosi in una posizione di “equiprossimità”, vale a dire che, rispetto alle parti, sa essere “con” l’uno e “con” l’altro, senza però essere “dalla parte” di nessuno.
Con le parti lavora sulla dimensione umana ed esistenziale dei conflitti; non teme il disordine del conflitto né la sua complessità; ha fiducia nel fatto che gli effetti del conflitto da distruttivi possono diventare costruttivi.
Con le pratiche di mediazione diventa così più facile accedere alla consapevolezza che essere in conflitto fa parte della vita: non è né un bene né un male. Il conflitto c’è, semplicemente. La violenza è una forza di vita che dimora in ciascuno di noi; è importante riconoscere che è lì e che si manifesta ogni volta che viviamo un’esperienza di opposizione. Ma l’essere umano ha la capacità di trasformarsi: non è condannato a essere violento, a soccombere agli istinti distruttivi, a essere privato della speranza di potersi controllare.
Attraverso le pratiche di mediazione è possibile ricucire gli strappi che hanno accompagnato il degradarsi della relazione e prevedere, accanto a meccanismi più propriamente sanzionatori, delle forme di riparazione stimolati dal convincimento di fondo che l’armonia tra gli esseri è qualcosa che si apprende e che può essere raggiunta attraverso un impegno costante.