Il Dio della guerra e della pace
Come interpretare la Bibbia, soprattutto in alcune sue espressioni veterotestamentarie?
La Bibbia è spesso associata alla violenza, piuttosto che alla nonviolenza. Si dipinge un Dio che non ha mai perdonato ad Adamo ed Eva la “colpa delle origini”. E che ha addebitato questa colpa a tutto il genere umano. Eppure ciascuno è responsabile delle proprie colpe. Giammai i figli sono responsabili delle colpe dei padri. Dio, invece, ha addebitato questa colpa adamitica a tutti. Certo, poi ci ha inviato suo figlio. Il quale, però, ha perdonato le colpe di coloro che hanno creduto e credono in lui. Ricordiamo bene il “extra ecclesia, nulla salus”. Si salvano, ma non tutti. Solo i cristiani doc.
Come è possibile? Che il Dio della misericordia, della tenerezza, può essere interpretato come l’esatto contrario? Forse, dovremmo rivedere radicalmente i linguaggi della fede, proprio per evitare che siano equivocati. E che il Dio della tenerezza diventi il Dio della violenza.
L’idea che il Dio del monoteismo sia un Dio violento è riesplosa in Occidente soprattutto dopo l’11 settembre. Diversi autori, tra cui Galimberti, sostengono che i monoteismi sono responsabili della violenza. Occorre ripensare il monoteismo, cogliendone la dimensione di fraternizzazione, piuttosto che di violenza, destrutturando i pregiudizi. Come collocarsi di fronte al modo di pensare oggi diffuso che la violenza risieda nel monoteismo e nella pretesa di universalismo della Bibbia stessa?
Innanzitutto, occorre riconoscere che, di fatto, sul piano storico molte volte i monoteismi sono stati violenti. È necessario, quindi, un mea culpa.
Poi, bisognerebbe avere la consapevolezza che una cosa è il testo fondantivo delle religioni, e quindi per noi la Bibbia, altra è la storicizzazione e l’uso che di quel testo si fa. La storia è capace di capovolgere tutto, di travolgere o mistificare le idee base. È complesso il rapporto tra un messaggio e la storia. Perché la storia non è l’esecuzione di un’idea o la sua negazione, bensì un intreccio di elementi, un unicum in cui confluiscono egoismo, interesse, paura, angoscia, fame, bisogno, conflitto.
Infine, occorre un’ermeneutica radicale dei testi biblici. Bisogna interpretare in modo rigoroso e contestualizzare i testi sacri.
Dio guerriero o Dio degli eserciti, per esempio: cosa vuol dire che Dio è guerriero? È chiaro che è un’immagine. Dio fa guerra alla guerra. Come fare guerra alla guerra senza riprodurre la guerra? Come destrutturare la logica violenta che si organizza con la struttura, con la logica della guerra a livello macropolitico?
Il Dio guerriero, il Dio degli eserciti è da intendere in questa prospettiva. Guerriero vuol dire che Dio muove guerra alla violenza e che, per far sì che l’uomo la elimini dal suo cuore e dalla storia, entra in scena.
Anche l’immagine dell’ira di Dio, di un Dio che si arrabbia, è una metafora per dire che Dio non tollera il male. L’ira di Dio esprime che c’è qualcosa di intollerabile. Cosa non si può tollerare? Che un bambino venga ucciso, che possa morire di fame di fronte all’indifferenza di tutti.
Dio è la coscienza dell’intollerabile nella storia dell’umanità. Il principio della tolleranza ha un limite. Non possiamo tollerare che i bambini ogni 3 secondi muoiano. Non possiamo tollerare che gli Stati spendano miliardi per armarsi di fronte alla follia della guerra. L’ira si scatena di fronte al male, non di fronte a chi lo compie.
Il Dio di Israele
Pare a molti che il Dio di Gesù è il Dio della misericordia e dell’amore, mentre il Dio di Israele è il Dio della severità, della punizione, dell’ira, degli eserciti. Eppure, anche il Dio di Israele è il Dio dell’amore. Tutti i racconti di fondazione prevedono un eroe, il cui tratto caratteristico è quello di avere più forza rispetto agli altri. E sulla base di questa potenza, si istituisce l’ordine della forza. Nel racconto biblico, invece, nell’Esodo, non c’è un eroe.
L’Esodo ha qualcosa di straordinario nel porre al centro, non un eroe, ma uno straniero e uno straniero oppresso. Israele è un oppresso straniero, soggetto di benevolenza da parte del Dio liberatore, il Dio di Israele. Dio non si rivela come Dio potente, che ha la forza, bensì come un Dio che ascolta il gemito di Israele. La bibbia dischiude un orizzonte: la grazia, il dono. Nel nuovo testamento si parla di per-dono, doppio dono. Il Dio che ama gratuitamente diventa un Dio che per-dona l’umanità che si è fatta violenta, che si è alienata.
Se non si rimette in discussione radicalmente l’idea della forza e della potenza, non si potrà uscire dalla logica della violenza e della guerra. Bisogna decostruire l’idea che la potenza e la forza siano i principi costitutivi dell’umano. Questo è il vero discorso sovversivo.
Oggi che l’umanità si sta globalizzando e che esistono strumenti tecnologici che possono portare l’umanità alla distruzione, più che mai, per un nuovo modello di vita pubblica, occorre una rigorosa critica della potenza, una rinuncia consapevole al mito della forza. La Bibbia decostruisce l’idea che la forza sia risolutiva di tutto. La benevolenza non nega la forza, ma la pone al servizio dell’altro, del pianto dell’altro, del suo bisogno e della sua fame. Questo è il Dio di Israele.
Il dio della croce
Assegnando un ruolo di metafora a Caino, questi non mette se stesso a disposizione di Abele. È così per tutti. La mano può accarezzare o strozzare. Il gesto della mano è il vero passaggio, la metafora della storia umana: la mano che, invece di proteggere, si stringe e nega l’altro. L’uccisione nella forma estrema (le forme meno estreme sono l’indifferenza, la chiusura, la difesa del proprio). In questa chiave, va letta la vicenda del Dio della croce.
La croce è l’evento centrale del nuovo testamento: un evento, però, di difficile interpretazione. La categoria che aiuta a capire la novità della croce è la nonviolenza. Il crocifisso è evento di nonviolenza, che apre la possibile creazione di un umano fraterno, buono, così come Dio lo aveva sognato nel primo mattino della creazione.
Evento è etimologicamente e-venire, qualcosa che non è deducibile dalla storia, non è comprensibile con l’intelligenza o con la volontà. Irruzione. È qualcosa che è al di là di quello che si può immaginare.
Cosa ci raccontano i Vangeli? Non ci mettono in luce la sofferenza di Gesù, nè la violenza che su di lui si è abbattuta (che, peraltro, non ha sofferto più di tanti altri - pensate a chi per 18 anni ininterrotti è torturato o a chi muore per fame).
Il crocifisso è l’immagine dell’umanità dolorante, di quella che patisce a causa della violenza. Ma i Vangeli sottolineano come Gesù si è posto di fronte alla violenza che si è abbattuta su di lui. Non si è ribellato. Né ha giustificato quella violenza. Perché è l’innocente per eccellenza. I Vangeli rompono la logica comune. È la potenza del perdono rigenerante. Il perdono che apre gli occhi.
Gesù, innocente per eccellenza, assume sulle spalle l’ingiustizia subita, come atto di amore nei confronti di coloro che lo stanno odiando e uccidendo. Questo è l’evento: dire a coloro che ti odiano “io ti voglio bene, tu sei la cosa più preziosa per me”. Gesù risponde alla violenza che si abbatte su di lui con il gesto della nonviolenza. Il gesto estremo dell’amore rivolto verso colui che compie il gesto massimo di violenza. Qui tocchiamo la profondità dell’evento della croce: la nonviolenza dentro l’abisso della violenza. Il gesto non reattivo spezza il determinismo della violenza.
Perché siamo violenti? Dio non ci ha sognati violenti. La violenza è un prodotto delle scelte umane e, così come è stata generata, può essere decostruita. Questo è il mio sogno: un cristianesimo che torni a essere pacifico. Non si può spiegare la violenza secondo principi naturali, come avviene per il regno degli animali, né deontologicamente. La violenza non fa parte della struttura metafisica del reale. La violenza va ricondotta all’ordine della libertà umana. Gesù ci dice: voi vi siete fatti lupi mentre il padre vi ha sognati fratelli. Ed è qui che Gesù propone il ritorno alla creazione. Alla Genesi. Costruire un mondo di fraternità andrebbe posto come criterio fondativo di tutto: delle Chiese come della politica.