PAROLA A RISCHIO

Questione di occhi

Capaci di sguardi luminosi, incontreremo l’altro, lo sapremo abbracciare come fosse un fratello o una sorella.
Don Angelo Casati

È sera inoltrata, le vie della mia città sono affondate nell’indistinto, quasi prosciugate nel buio, come fosse notte fonda. Avrei potuto anche chiamare un taxi, ma mi ha preso voglia di camminare per le strade buie, quasi un desiderio di respirarle nel buio. Me ne vado solo; il quartiere, fuori dalla metropolitana, è deserto, deserto e sconosciuto. Sento passi alle spalle. E sento la mia stranezza: io che mi sono sempre pensato coraggioso, vaccinato contro ogni forma di paura, mi sento salire alle spalle l’interrogazione: e chi sarà mai colui che si sta avvicinando e che ora sta per sorpassare? Sento la strada come il simbolo delle paure che ci abitano. Non è paura per i marciapiedi dissestati, paura di incespicare, paura per le cose, è paura dell’uomo. E ciò mi disturba. Mi disturba che si sia giunti alla paura dell’uomo. E lo chiamiamo progresso! Mi viene d’istinto di ricordare tempi lontani – quanto lontani! – quando da piccolo uscivo di casa che era ancora buio e me ne andavo da solo a “servire Messa” e, percorrendo la strada che dalla casa mi portava alla chiesa, l’unica paura che mi abitava era quella di un cane che, all’avvicinarsi dei miei passi, abbaiava come un forsennato al di là di una staccionata. Ora siamo arrivati alla paura dell’uomo, alla paura dell’altro, dello sconosciuto.

Paura del diverso

Il diverso, cui abbiamo dato sbrigativamente il nome dello straniero, dell’omosessuale, dello zingaro, del terrorista, come se la categoria fosse circoscritta. Poco, invece, sostiamo a riconoscere e a confessare che la paura che ci abita è, alla radice, ben più estesa, perché paura della diversità. Da qualunque orizzonte provenga. Ogni uomo e ogni donna, ogni creatura porta iscritto il nome “diverso”, diverso da me, in qualche misura straniero. E dunque, come mi affaccio all’altro, chiunque sia, vicino o lontano, in casa o fuori casa, entra in gioco, anche se non ne sono immediatamente cosciente, il mio rapporto con la diversità. Che, poco o tanto, lo devo riconoscere, mi inquieta. L’altro, terra che non mi appartiene, terra sconosciuta, terra straniera. Ancora una volta sono messo a confronto con un territorio straniero e dunque chiamato a un viaggio, a una distanza da colmare.

“La paura dell’altro”, scrive Enzo Bianchi, “è una sensazione paralizzante che va superata non rimuovendola, bensì razionalizzandola”. E aggiunge che d’altro canto “l’identità non va indurita, non va cercata senza e contro gli altri. Perché diventa un fantasma, e ciò porta a ridurre le relazioni sociali alla materialità del dato etnico, dell’omogeneità del sangue, della lingua parlata o della religione praticata, aprendo così la via a forme di politica totalitaria e intollerante. I risorgenti nazionalismi e le tendenze localistiche si accompagnano sempre a spinte xenofobe e razziste che tendono all’esclusione dell’altro e si risolvono in un autismo sociale: una mancanza di ossigeno vitale contrabbandata come nicchia dorata, ma che, in realtà, diviene un sistema asfittico, in cui avanza la barbarie”.

Non si tratta, dunque, di cancellare le identità, ma di mettere in comunicazione le terre, lasciandoci fermentare gli uni gli altri dalla luce che ci abita. Perché ciò succeda, condizione indispensabile è la conoscenza dell’altro. Che spesso ci sfugge. Mesi fa un’amica mi scriveva:

“… Qualche tempo fa il don in chiesa ha parlato di profeti... e ha detto che ciascuno di noi può essere in qualche misura profeta... ma per esserlo, credo io, bisogna essere tanto ma tanto piccoli, liberarsi da ogni certezza e mettersi al servizio della vita, di ciò che viene, accettando di essere sempre in qualche misura ignoranti, con tanta sete di imparare dagli altri e di meravigliarsi sempre, come dici tu, di una fragolina che nasce nel cemento. Ciò che mi meraviglia di più, sempre, ogni giorno, sono proprio gli uomini... Tempo fa al supermercato ho incontrato una donna anziana che camminava con un bastone e portava con sé una di quelle borse con le ruote. Arrivata alla cassa si accorse di non avere il portafoglio, così spostò le cose che aveva sul rullo della cassa e mi fece passare. Io pagai la mia spesa e poi arrivata all’auto dissi a mio figlio che era con me: ‘Non possiamo lasciarla lì’. Così tornai indietro e chiesi dove abitasse: l’avrei accompagnata a recuperare il suo portafoglio. Il supermercato, però, stava per chiudere e così mi offrii di pagarle la spesa e l’accompagnai a casa. In auto mi disse che, nonostante l’atto gentile, trovava incauto che io l’avessi aiutata. Io risposi che, in fondo, al massimo ci avrei rimesso 30 euro e che io, in ogni caso scelgo sempre di avere fiducia nelle persone (con la dovuta accortezza naturalmente). Arrivati a casa sua scoprii che era una scultrice e mi mostrò il suo studio e i suoi lavori, mi raccontò parte della sua vita e alla fine la salutai. Tornai a casa quasi alle 9! Non so perché, ma credo sia stato uno scambio vicendevole tra me e lei e in realtà è lei che ha reso quella serata una serata speciale per me. Mi ha meravigliato come un corpo segnato dall’età e dagli acciacchi fosse in realtà una donna con un talento senza età, una vita piena di avvenimenti e di emozioni, insomma, una vita. Mi sono sentita privilegiata perché se non l’avessi aiutata non avrei potuto vedere e sentire ciò che ho visto e sentito. Per meravigliarsi bisogna rischiare, rischiare di uscire dal coro per sentire le voci che ci sono fuori, sono tante, bellissime, uniche e ricche di mistero. Io non sono un profeta, ma credo che sempre si debba fare un passo in più e sono contenta che quella sera con me ci fosse mio figlio, perché spero sempre che un giorno pure lui non giri la testa dall’altra parte, anche se si trattasse di una piccola cosa come questa, perché, gli ho detto, potrebbe perdere un’ opportunità. Quella di stupirsi, meravigliarsi, conoscere, emozionarsi e andare verso... sempre andare verso...”. 

Questione di sguardi

A volte mi dico che fondamentalmente è una questione di occhi. Se gli occhi sono vuoti tutto è vuoto. A questo proposito, anche gli occhi dei bambini hanno molto da insegnare. Mesi fa una lettera su “Repubblica” raccontava di una mamma, Irene Zerbini, e di un bambino, suo figlio, vissuto da piccolo in Canada. Cinque anni fa, venuti in Italia, il figlio di otto anni le dice: “Mamma, non vorrei offenderti, ma qui sono tutti bianchi. Ma che cosa avete fatto agli altri?”. Come assistesse a un mondo impoverito, defraudato. 

Che sia una questione di occhi? Se i tuoi occhi sono abitati dalla luminosità degli occhi di Gesù, l’altro lo strappi all’estraneità e alla lontananza, lo vivi come fratello, sorella. Ti eserciti ogni giorno a guardarlo come un vicino, un fratello, una sorella. Se questo succede si diradano le tenebre sulla terra e inizia il cammino della luce.

Quando vediamo la luce? Un vecchio rabbino domandò una volta ai suoi allievi da che cosa si potesse riconoscere il momento preciso in cui finiva la notte e cominciava il giorno. “Forse quando si può distinguere con facilità un cane da una pecora?”. “No” disse il rabbino. “Quando si distingue un albero di datteri da un albero di fichi?”. “No” disse il rabbino”. “Ma quando allora?” domandarono gli allievi. Il rabbino rispose: “È quando, guardando il volto di una persona qualunque, tu riconosci il fratello o la sorella. Fino a quel punto, è ancora notte nel tuo cuore”. Finisca la notte. E inizi il giorno.

 

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