COSTITUZIONE

Resistere, resistere, resistere

A 65 anni dal giorno della liberazione italiana dal nazifascismo, ricordiamo l’attualità di una ricorrenza tra memoria e necessità dell’oggi.
Alessandro Sipolo (Giovane volontario ANPI (Associazione Nazionale Partigiani d’Italia))

Resta d’estrema attualità ricordare chi si è ribellato all’orrore del nazifascismo, spesso nemmeno ventenne – cioè in un’età in cui oggi si sta ancora praticamente attaccati al cordone ombelicale della mamma. Ragazzi che hanno rischiato tutto per ricordare agli italiani cosa significasse “tornare a essere umani”. Per donare all’Italia una Costituzione straordinaria, studiata e apprezzata in tutto il mondo. Una Costituzione esemplare proprio perché frutto e sintesi delle migliori istanze delle forze che hanno contribuito alla Resistenza: la sensibilità solidale e interclassista del pensiero cattolico, l’impegno per l’eguaglianza e per la tutela dei lavoratori propria della tradizione comunista e socialista, la storica attenzione per l’unità, la laicità e la democrazia che hanno caratterizzato le forze repubblicane ed azioniste. Tutto questo è la nostra Costituzione, figlia della Resistenza e delle differenze presenti in essa.

Una storia condivisa?

Ogni popolo ha bisogno di un racconto fondante, di una storia comune nel quale riconoscersi, unito, pur nelle sue diversità, attorno a valori condivisi da tutti. Qualcuno ha detto “ beati i popoli che non hanno bisogno di eroi”. Noi, purtroppo, ne abbiamo avuto bisogno. Ma proprio grazie a quegli eroi – ai nostri partigiani – abbiamo potuto recuperare una dignità nazionale che ci mancava da più di vent’anni. Abbiamo avuto l’occasione di ripartire da una storia comune a tutti i democratici, a tutti gli antifascisti: la Resistenza. Cosa che, purtroppo, non è avvenuto più e non avviene tutt’oggi. Persino la memoria in Italia è stata e resta divisa. Divisa non solo per l’interesse politico di coloro che cercano il loro pugno di voti cavalcando i bassi istinti e l’ignoranza dei nostalgici. Divisa anche da chi pretende di riscrivere la storia senza conoscerla, senza avere le competenze per elaborare uno sguardo organico sui fatti storici. Chi cioè sfrutta il vento del revisionismo per gonfiarsi le tasche, dopo averlo fatto già ieri, magari sostenendo tesi e idee del tutto opposte, quando il vento era un’altro e conveniva di più spacciarsi per progressisti o alternativi. Ecco perché ricordare oggi è necessario, per di più per una nazione che sembra avere sempre troppa fretta di dimenticare e per questo rischia di reiterare gli stessi errori. Ma il 25 Aprile non è solo memoria. 

Lotta, ieri e oggi

Il 25 aprile significa anche lotta. Lotta di ieri certo, ma anche (e per noi giovani soprattutto) lotta di oggi. Certo il fascismo è stato sepolto dai nostri partigiani 65 anni fa, e sarebbe del tutto fuori luogo equiparare la situazione politica del ventennio a quella attuale. Tuttavia, sarebbe altrettanto ridicolo negare analogie sconcertanti con alcune delle piaghe culturali di allora. Una su tutte la costante voglia del nostro popolo di delegare il proprio pensiero, di cercare non qualcuno che porti avanti le proprie istanze, quanto piuttosto qualcuno che dica cosa “bisogna” desiderare e “per che cosa bisogna” credere, obbedire e combattere. La voglia di invocare, per quieto vivere individuale, “un uomo solo al comando” che pensi e decida per tutti, in quella eterna “sindrome da balcone” che sembra non voler mai abbandonare il popolo italiano. Così, complice un sistema di informazione monopolizzato che viene guardato con incredulità da tutto il resto d’Europa, lo spettro del pensiero unico aleggia oggi nel nostro Paese

Un pensiero unico che guarda alle differenti opinioni non come arricchimento ma solo come ostacolo alla propria affermazione, quindi da eliminare al più presto. Pensiero unico che oggi significa soprattutto “invito a non pensare”. A drogarsi di sport, di intrattenimento e di corpi femminili buttati in pasto al pubblico come merce da mercato delle carni. Perché questo deve essere il pane per i cervelli del popolino. Alle decisioni importanti penserà poi la casta dei capi supremi, l’oligarchia delle poltrone!

Quasi quarant’anni fa, uno dei più grandi intellettuali del Novecento, Pier Paolo Pasolini, scriveva: “Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ciò che ha fatto il centralismo della società dei consumi… per mezzo della televisione il Centro ha assimilato a se l’intero Paese… ha imposto cioè i suoi modelli… non si accontenta più dell’uomo che consuma ma pretende che non siano più concepibili altre ideologie che quella del consumo”. A trentacinque anni dalla sua morte, queste parole suonano come una profezia.

I nuovi perseguitati

Ecco perché Resistenza è tutt’oggi una parola attuale: perché ieri come oggi significa lotta per il pluralismo e la difesa delle diversità. E non solo, significa ancora lotta per l’eguaglianza. L’Italia, dicevo, è travolta da amnesie continue. E lo rivela più che mai nelle sue campagne d’odio contro i nostri fratelli e compagni migranti, che si ritrovano perseguitati per la sola colpa di essere fuggiti dalla fame o dalla guerra e aver cercato di dare a se stessi e alle proprie famiglie una speranza di benessere e dignità. Gli italiani, che fino a ieri partivano verso le Americhe, la Germania o il Belgio, che negli Stati Uniti venivano esclusi dai locali pubblici o che hanno dovuto far crescere i loro figli di nascosto in Svizzera, oggi, con la pancia ormai piena, chiudono la porta in faccia a chi offre le proprie braccia al nostro Paese. A chi produce un’enorme fetta del nostro PIL senza nemmeno poter votare, senza poter essere cittadino italiano prima del decimo anno di permanenza, o del diciottesimo anno d’età, anche se nato in Italia. E la provincia di Brescia, oggi, si scopre la regina d’Italia in quanto a discriminazione verso i migranti: taglie sulla testa dei clandestini, bonus bebè per soli bianchi, caccia all’immigrato per festeggiare il Natale, sono solo alcuni dei provvedimenti che hanno fatto riassaporare alla nostra provincia l’aria del 1938, quella delle leggi razziali.

Troppo facile oggi parlare di shoah, di persecuzione antisemita, se poi si finge di non vedere i nuovi perseguitati, gli africani delle nostre fabbriche, i rumeni, gli albanesi e i magrebini che ingrassano la nostra edilizia spesso senza contratto né sicurezza, le donne dell’est e del Sudamerica che negano la cura alle proprie famiglie per darla ai nostri anziani, i rom e i sinti stipati come bestie nei “campi nomadi” soltanto perché bollati come “zingari”, senza nemmeno essere interpellati. Contro di essi si scatena la campagna mediatica, la caccia al clandestino, poco importa se poi da un giorno all’altro arrivano sanatorie di massa e i pericolosi clandestini diventano, come d’incanto, normalissimi lavoratori in regola. La ricerca del capro espiatorio, del nemico interno da perseguitare, dello straniero da odiare perché diverso, ci riporta ancora una volta settant’anni indietro. Soltanto riscoprendo la memoria di sé, l’Italia può tornare a essere umana. Ecco perché oggi abbiamo vissuto il 65° anniversario della liberazione come se fosse il primo, perché come allora sentiamo ci sia ancora moltissimo per cui battersi. Diversi i contesti, ma uguale l’istinto di ribellione all’omologazione e al sopruso. Se le armi di ieri furono i fucili e i sentieri quelli delle nostre montagne, oggi le armi siano la conoscenza, la tolleranza, la solidarietà e i sentieri quelli che portano le genti e le opinioni diverse verso un incontro di convivenza civile.

 

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