Strategie di guerra

Parliamo di sicurezza italiana: il contesto, la produzione armiera, le missioni in zone di guerra, i modelli di difesa.
Maurizio Simoncelli (Consiglio direttivo Archivio Disarmo)

Prima di parlare della politica della difesa e della sicurezza italiana, occorre fare una premessa importante in merito alle due parole “difesa” e “sicurezza”, usate spesso come sinonimi. 

Il concetto di difesa non è esattamente uguale a quello di sicurezza, poiché, mentre la prima, almeno per un lungo periodo storico, tendeva a riferirsi all’integrità territoriale nazionale e quindi era ben identificabile dal punto di vista geopolitico, la seconda si presenta in modo più articolato e indefinito, presupponendo, inoltre, una soggettività maggiore nella percezione della minaccia. In un mondo globalizzato, la sicurezza delle rotte commerciali, dei rifornimenti energetici, dei sistemi informatici ecc. si espande sull’intero spazio terrestre, passando attraverso oceani e montagne. Basti pensare ai rifornimenti energetici che ci provengono dall’africana Nigeria, dall’orientale Golfo Persico, dalle steppe russe, nonché alla mole di merci destinate ai nostri mercati e in viaggio dalla lontana Cina attraverso gli oceani. Se poi pensiamo alle minacce informatiche e al cyberspazio, il riferimento alla territorialità appare ancor più evanescente e la potenzialità della minaccia assume forme più articolate e differenziate da quelle classicamente considerate.

Infatti, quando oggi si parla di politica di sicurezza, non ci si limita più alla concezione classica della difesa dei confini nazionali marittimi, terrestri e aerei, ma ci si proietta ormai sull’intero scacchiere mondiale. E, pertanto, non è casuale che già da oltre venti anni anche le FF.AA. italiane si siano andate dotando di strumenti militari in grado di supportare quest’azione globale: ad esempio, risale agli anni Ottanta la decisione di dotarsi della miniportaerei Garibaldi, a cui oggi si affiancano la nuova portaerei Cavour, recentemente utilizzata per gli aiuti ad Haiti e il programma FREMM (Fregata Europea Multi Missione).

Con la fine della guerra fredda e l’implosione dell’URSS, è apparso chiaramente che negli anni Novanta la minaccia per l’Italia non era più costituita da una possibile invasione armata avversaria via terra dall’Europa centrale (con la nostra conseguente dislocazione di truppe e di armamenti nel Nord Est). Anzi, parlando propriamente di minaccia militare, essa appariva assai debole, se non del tutto inconsistente, data la crisi economica, politica e militare della Russia (peraltro non più antagonista) da un lato e l’assenza di nazioni concretamente ostili nell’area mediterranea dall’altro. 

A distanza di un ventennio, il quadro non appare sostanzialmente mutato. La Russia, ripresasi abbastanza dalla sua crisi, ha comunque avviato complessivamente buoni rapporti con l’Unione Europea e con la NATO, oltre che con gli Stati Uniti, soprattutto dopo l’avvento di Obama. Mentre l’area balcanica si è discretamente stabilizzata, i Paesi rivieraschi del Mediterraneo continuano a costituire un’area non minacciosa dal punto di vista militare, poiché una parte di essi (quelli europei) è legata da vincoli di alleanza politico-economica per lo più attraverso la NATO stessa e/o l’UE e un’altra parte continua ad avere sia buoni rapporti con l’Italia, sia forze armate comunque non in grado di costituire una minaccia. 

Nell’area mediterranea rimangono certamente grossi e irrisolti problemi, in primo luogo quello del conflitto israelo-palestinese e poi, seppur assai diverso, il fenomeno della crescente pressione migratoria. Poi, dal 2001, con l’attentato alle Twin Towers, all’opinione pubblica è emersa chiaramente la dimensione della minaccia del terrorismo di matrice islamica, realtà, invece, ben nota a quanti si interessavano, seppur minimamente, di questioni relative alla difesa e alla sicurezza.

In questo nuovo quadro internazionale, nel corso degli anni, l’Italia è andata impegnandosi sempre più sullo scenario mondiale attraverso una serie di missioni denominate globalmente (e a volte anche impropriamente) di peace-keeping, dai Balcani al Libano, dall’Iraq all’Afghanistan, tanto che al momento attuale sono oltre 8.000 i soldati italiani presenti in 31 missioni internazionali (a cui si dovrebbero aggiungere altri 1.000 in Afghanistan dopo le recenti decisioni governative seguite alle richieste dell’amministrazione Obama).

Infatti, la progressiva presenza all’interno di forze multinazionali sia NATO, sia UE è andata divenendo una costante dell’azione politica italiana in questo ambito. Inoltre, dopo la fine della Guerra Fredda e poi con l’unilateralismo dell’amministrazione Bush, in ambito europeo è cresciuta l’esigenza di una politica della sicurezza comune, che ha portato a una serie di ancora timide iniziative, che testimoniano l’aspirazione di un colosso economico che non riesce ancora a esprimere una politica estera e di difesa comune. Le resistenze in atto sono fortissime e nessun governo nel Vecchio Continente sembra voglia rinunciare a una parvenza di autonomia e di indipendenza, simboleggiate proprio dalla gestione nazionale delle forze armate.

Dico parvenza proprio perché di fatto le grandi scelte di politica internazionale appaiono sempre di più condizionate dalla complessità dei legami esistenti (in ambito NATO, UE, OSCE, WTO, ecc.), che nella realtà dei fatti sembrano lasciare ben poco spazio di manovra. Ciò. per quanto riguarda noi, è stato dimostrato da un lato dalla partecipazione italiana ai bombardamenti NATO nei Balcani (governo di centrosinistra) o dalla guerra in Iraq a seguito della coalizione statunitense (governo di centrodestra), dall’altro dalla vicenda dell’acquisto dei caccia F35 (in sostituzione, a partire dal 2015, dei velivoli in servizio Tornado, AMX e AV-8B), anch’esso deciso nel tempo in modo bipartisan.

Sono evidenti le difficoltà italiane ad assumere posizioni di una certa autonomia nel consesso internazionale, tendendo spesso ad allinearsi alla politica statunitense, seppur esprimendo – allo stesso tempo – aspirazioni europeiste, più volte ribadite dai nostri governi di diverso colore politico. D’altro canto, rimane costante allo stesso modo l’impegno italiano a operare nel campo del disarmo nucleare.

Anche il contemporaneo impegno nella produzione militare, attraverso la grande società a partecipazione pubblica Finmeccanica, ci vede ormai tra i primi dieci grandi esportatori di maggiori sistemi d’arma (aerei, mezzi corazzati, navi, artiglieria, ecc.) e addirittura al secondo posto nell’ambito delle armi leggere, legandoci anche a una serie di politiche industriali internazionali nel settore della difesa. La consueta difficoltà italiana a seguire una linea più autonoma è evidenziata anche qui dal contemporaneo impegno nella produzione e nell’acquisto da un lato del caccia F35 con gli USA e dall’altro del caccia Eurofighter con il consorzio europeo Eurofighter Gmbh (formato da British Aerospace, Daimler-Benz tedesca, Alenia Aeronautica italiana e CASA spagnola), velivolo con analoghe prestazioni. Tale duplicità è riscontrabile anche di fronte alla questione di appartenenza all’UE o alla NATO, che tendono a volte a porsi come due imbarazzanti alternative.

Se è ovvio che nell’epoca della globalizzazione non è possibile perseguire una politica della sicurezza nazionale svincolata dai legami internazionali ipotizzando un isolazionismo fuori dalla realtà, è altrettanto certo che la posizione italiana non ha mai brillato di una particolare capacità di azione autonoma. La vicenda della partecipazione italiana alla guerra condotta da Bush contro Saddam Hussein con la motivazione inventata del possesso iracheno di armi di distruzione di massa (ammesso, poi, come inesistente dallo stesso Bush) rappresenta una brutta pagina della nostra storia nazionale, di appiattimento acritico e di compartecipazione a un conflitto preparato a tavolino, come anche l’esperienza delle “renditions” contro il terrorismo (vedi il caso Abu Omar a Milano). 

Come si accennava, non si notano nel tempo in questo settore particolari differenze nella condotta dei diversi governi succedutisi nell’ultimo ventennio, confermando da un lato la “fedeltà” all’alleato d’oltreoceano e dall’altro la disponibilità a operare in chiave UE, operatività che, però, rimane ancora largamente allo stato ipotetico, nonostante la PESD (Politica Europea di Sicurezza e Difesa) formalmente attivata a Bruxelles. 

 

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