Merendine
In cosa consistano le Merendine è presto detto. Si tratta di fogli settimanali di una pagina che vengono distribuiti gratuitamente in alcune scuole della provincia di Como, generalmente in quelle dove lavorano i suoi redattori. I fogli propongono all’attenzione dei colleghi e degli studenti testi di poesia in lingua italiana e straniera riconducibili al tema della Relazione, sempre più spesso declinata sul piano dei rapporti interculturali. I testi sono accompagnati da un’immagine che ne correda e amplifica il significato e si possono trovare facilmente nelle vicinanze dei ghiottissimi distributori di merende e di bevande che stanno colonizzando, manu militari, i corridoi delle scuole di ogni ordine e grado. La convinzione che ci muove è che la poesia possa – forse più di altri strumenti – documentare e perpetuare la continuità dell’umano al di là di qualsiasi differenza immaginata o realmente percepita. Per dar l’idea del retroterra culturale e dei propositi che animano la Redazione vi proponiamo un brano tratto da una dispensa di Educazione alla Mondialità di un nostro collaboratore.
L’episodio risale a più di trent’anni fa. Io me ne sto tranquillo alla fermata dei tram che da piazza Cordusio, a Milano, corrono in direzione dell’università.
A un tratto appare sulla scena un nero-africano, maschio, ventenne, ceppo negroide, altezza un metro e ottantacinque circa, capelli neri come la brace, narici dilatate e carnagione torrefatta al punto giusto. A passi lenti, si avvicina a una signora che tiene saldamente tra le mani due borse stracariche di spesa. Lui chiede testualmente: “Scusi, signora, mi sa dire dov’è piazza della Scala?”. Riavutasi dallo spavento, la signora poggia le borse a terra (a quel tempo i neri, così come i marroni e i gialli non erano ancora di casa, e a essere sinceri fino in fondo pare che non lo siano nemmeno oggi), lo squadra per benino e con trasporto caloroso, intriso di afflato missionario, gli risponde: “Tu andare dritto, poi arrivare a semaforo, girare a sinistra e infine arrivare a grande piazza: piazza della Scala”. Mentre gli illustra diligentemente il percorso, la signora gesticola in modo largo e inusitato, alla francese. Per dirgli che deve andare dritto, sfodera sopra la testa braccia e mani come filanti ed esattissimi binari; per indicargli la presenza del semaforo, apre e richiude il palmo delle mani mimando la sequenza dei colori con espressioni cartoamimate: “Puff… Puff… Puff…” (tradotto: verde, giallo, rosso) e, infine, per dargli l’idea dell’ampiezza della piazza, apre e richiude in cerchio, ariose, le sue braccia.
E intanto io me la piango sotto i baffi.
Piango, deluso e sconsolato perché considero che la signora, grazie alla sua buona-azione, si è vista restituire un sentimento compiaciuto e magnanimo di sé. Mentre seguiva di straforo il nero nell’ardua esplorazione del fitto dedalo dell’urbe, si sarà chiesta se ce l’avrebbe fatta a guadagnar la piazza. Ne son sicuro: sarebbe stata disposta, se fuorviato dal babelico via vai, a prenderlo per mano per condurlo passo passo fino in meta. La signora, che si esprime in modo primitivo e fanciullesco, con il soggetto in bella mostra e una sequenza fitta di verbi all’infinito, che finge di ignorare i congiuntivi, può anche essere detta di pasta buona, ma è innanzitutto da costoro che ci si può attendere di più. Perché, senza avvedersi, lei sta dilapidando l’indole di sapiens. Se a proporle la domanda “Scusi, signora, mi sa dire dov’è piazza della Scala?”, fosse stato non un negroide, ma un giovanottone norvegese (maschio, ventenne, ceppo europoide, altezza un metro e ottantacinque circa, capelli biondi come le spighe d’orzo a maggio, narici asciutte e affilate), non avrebbe risposto allo stesso modo, dandogli del tu. Avrebbe declinato almeno un congiuntivo, non con il Tu, ma con il Lei, e non si sarebbe mai permessa di fare quella parafrasi clownesca del semaforo.
La signora si è ridotta a poca cosa perché ha pensato di essere al cospetto di una cosa tanto più piccola di lei. Nella sua offerta didascalica e indubbiamente generosa, tradisce un pregiudizio secolare nei confronti dei Neri, che lei immagina appena fuorusciti dalla foresta, dotati di sembianze belluine, di modi goffi e ineducati.
La logica (?) sottesa al suo ragionamento non fa che respingerli ancor di più nella foresta dalla quale sembrano appena usciti. Le sue reazioni comportamentali – eccolo un lascito inquinato della sua personalità culturale di base – fanno chiaramente trasparire la convinzione che con un nero si sia obbligati a impiegare il registro linguistico che vale per i bambini: bando alle complicazioni, meglio un eloquio piatto, perché sennò li si confonde. Alla signora serve il nero per affermare il suo primato, per vedersi confermata nell’immagine evoluta e progressiva che ha elaborato di se stessa e del suo gruppo. Il Nero, quell’individuo nero, prima ancora di essere esperito come ‘supe-riore’ o ‘inferiore’ quanto al repertorio delle doti (può darsi l’uno o l’altro caso) viene da subito – in quanto nero – inferiorizzato.
È la signora che lo ricaccia, con la ridondanza dei gesti e il frasario grossolano, nella foresta. E intanto si crogiola e si béa nella convinzione di essere maestra-civilizzatrice di una genìa di infra-umani appena sbarcata tra i Civili.
Et…et
Diceva J.P. Sartre che non esiste l’ebreo senza chi lo propone e addìta come capro espiatorio, come oggetto delle pulsioni incontrollate di chi ha patito qualche torto. Ce l’han già detto in mille salse: serve l’ebreo, il nero, il marocchino, l’albanese, per convogliare e orientare umori e spinte distrut-tive su chi, nei fatti, di colpe non ne ha. Per questo l’ebreo, a piacere, può essere il tifoso della squadra di calcio avversa, per tradizione, a quella per la quale si fa il tifo, è chi diverge dalle nostre fedi politiche, dalle nostre convinzioni religiose, ecc..
Ovunque, in tutti i tempi, prolifera l’ebreo. Ogni epoca ha i suoi ebrei. L’antisemita fa l’ebreo, perché l’antisemita esiste solo in quanto è anti - (contro qualcuno, contro qualcosa); quanto ai pro, ha una densità addirittura irrilevante, pari allo zero. L’antisemita, o l’idolatra della razza, riceve notizia di se stesso, quando gli è data l’occasione di reagire contro qualcuno. Come inguaribile reagente, riceve brani di identità solo da fuori: a farlo e a definirlo sono soltanto le occasioni. Lui è nella misura in cui reagisce, è un infraumano inguaribilmente difettoso che presagisce sbigottito tutto il suo vuoto. È il nulla che lievita e diviene non nel dialogo tra pari, ma nel brutale e acceso antagonismo. Non Io e Tu, insieme (Et…et…), ma o Io o Tu, in guerra (Aut…aut).