Dietro le sbarre
Le cifre sono chiare: i posti disponibili nelle carceri italiane ammontano a 45000; alla fine di marzo, i detenuti presenti erano circa 67000, con un incremento mensile di circa 1000 unità; il ministro della Giustizia Alfano, a un certo punto, ha parlato di una tollerabilità di 68000 reclusi (in base a quali criteri?), ma anche se fosse vero, a questo punto la cifra è stata ampiamente raggiunta, con esiti drammaticamente prevedibili.
Per far fronte a una situazione ormai fuori controllo, il governo ha varato il cosiddetto piano-carceri, articolato su 4 punti: 1) dichiarazione dello stato di emergenza per il 2010; 2) aumento della capienza degli istituti di 21000 unità; 3) assunzione di 2000 nuovi agenti di polizia penitenziaria; 4) detenzione domiciliare per chi deve scontare una pena inferiore a un anno e messa alla prova per chi è in attesa di giudizio con reati fino a tre anni.
Il punto che suscita maggiori perplessità è proprio il secondo, perché ancora una volta ci si illude di risolvere ogni problema riguardante la sicurezza della nostra società attraverso la carcerizzazione, ignorando percorsi alternativi di uguale, se non addirittura maggiore, efficacia.
Innanzitutto, il piano di edilizia penitenziaria prevede poteri straordinari, per il commissario Franco Ionta, Direttore Generale degli Istituti di Pena, molto simili a quelli per il sottosegretario Guido Bertolaso: individuazione delle aree per la costruzione delle nuove carceri, con deroghe alle norme urbanistiche, a quelle sugli espropri, al limite nei subappalti, mentre sarà compito della Protezione Civile individuare i progettisti, gli assegnatari degli appalti, i direttori dei lavori e altro. Preoccupante, ad esempio, ritrovare, nella costruzione di 3 nuovi carceri in Sardegna, alcune imprese già coinvolte nello scandalo della Protezione Civile, con gli strascichi giudiziari che ben conosciamo.
Inoltre, le colate di cemento per la costruzione di nuovi padiglioni, spesso sono previste nelle aree degli istituti già esistenti, con relative sottrazioni di spazi alle già scarse attività trattamentali, che pertanto rischiano di eclissarsi completamente.
Sarà ancora possibile organizzare corsi di avviamento professionale? Ci saranno aule sufficienti per la scolarizzazione e il conseguimento di un qualsiasi diploma scolastico? Verranno ancora ritenute utili le “aree verdi”, per i colloqui tra detenuti e le proprie famiglie, soprattutto con la presenza di minori? Potrà essere possibile una semplice partita di calcio su un terreno anche in terra battuta e non in cortili limitati, con fondi di incredibile durezza (se gli ortopedici dei penitenziari potessero parlare)?
L’eccessivo affollamento delle carceri italiane trascina con sé tutta una serie di problemi ormai ineludibili e che esigono risposte concrete, non certo quelle che il governo si appresta a varare.
Quotidianamente gli operatori si trovano ad affrontare emergenze che richiederebbero strumenti più adeguati, ma le soluzioni tardano ad arrivare, non certo per mancanza di inventiva o carenze della legislazione, ma per cause che colpiscono altri settori del disagio sociale e che pertanto vengono maggiormente trascurati vista, se così si può dire, l’irrilevanza dei soggetti coinvolti.
Gli agenti di polizia penitenziaria, nonostante venga loro richiesto non solo un ruolo di salvaguardia della sicurezza, ma anche educativo, a causa della carenza di personale, sono costretti a turni massacranti, riducendosi a un lavoro ripetitivo e alienante.
Gli educatori carcerari, figure fondamentali per percorsi trattamentali e di reinserimento, sono pochi, oberati da un numero considerevole di pratiche, costretti a occupare gran parte del proprio tempo in adempimenti burocratici, piuttosto che nel dialogo diretto con la persona detenuta; tenendo conto di quanto sia importante, da parte loro, la gestione dell’osservazione scientifica, ai fini di qualsiasi provvedimento di misura alternativa, è facile immaginare quanto possa essere pregiudizievole una loro carenza.
Ancor più problematica la scarsa presenza di figure professionali di rilevante importanza, quali criminologi, psicologi, psichiatri e altro; gente spesso motivata e consapevole dell’aiuto che può offrire, ma costretta a interventi sporadici a causa dei soliti tagli economici.
Le carenze rilevate spesso sono controbilanciate dalla presenza del volontariato carcerario, sia laico che confessionale, che si prodiga in modo assolutamente gratuito in vari settori, talvolta mal tollerato, ma sempre indispensabile per sopperire alle mancanze di un sistema che, diversamente, manifesterebbe troppo apertamente le sue falle: l’organizzazione e la gestione di corsi di formazione professionale; le attività di carattere culturale, ludico e sportivo; la risposta ai bisogni essenziali, come il vestiario o generi di prima necessità per i nullatenenti, soprattutto se stranieri; i colloqui personali di sostegno; l’accompagnamento nella fase di reinserimento all’interno della società; l’accoglienza per permessi premio o l’ospitalità alle famiglie che provengono da regioni lontane; l’aiuto nella ricerca di un lavoro e, quindi, un ritorno dignitoso allo stato di libero cittadino.
I SUICIDI
E intanto continua la conta straziante dei suicidi (17, dall’inizio dell’anno all’8 aprile 2010), con percentuali molto elevate rispetto alla popolazione esterna; la sanità penitenziaria, ormai affidata al sistema nazionale, soffre di tagli indiscriminati, con ricadute preoccupanti sul diritto alla salute, vista la carenza di medicinali e visite specialistiche. Vengono a mancare i fondi per le prestazioni lavorative, fonte di sostentamento per se stessi e per le proprie famiglie, col rischio di cercare altrove, negli stessi circuiti criminali, forme di sopravvivenza. Se poi si pensa alla semplice gestione degli spazi interni, è facile immaginare cosa significhi la convivenza forzata, in celle anguste, con numerosi altri detenuti, con letti a castello che raggiungono il tetto, un solo bagno da condividere con tutti, assoluta mancanza di privacy e, spesso, conflitti dagli esiti imprevedibili.
Se a tutto questo aggiungiamo l’incremento dei detenuti stranieri e degli enormi problemi che la loro presenza comporta, la situazione appare desolante: discriminazioni da parte degli italiani, scarsa assistenza legale, impossibilità di un sostegno esterno da parte delle famiglie e, quindi, di un rapporto periodico con esse; e ancora, la mancanza di mediatori culturali (i fondi sono sempre insufficienti…), la difficoltà di reperire un semplice cambio di biancheria, la prospettiva dell’inevitabile espulsione al termine dell’espiazione della pena.
LE SOLUZIONI
Se il quadro illustrato è realmente drammatico, non mancano soluzioni che, affrontate nella giusta prospettiva politica, renderebbero le nostre carceri meno affollate e, quindi, più vivibili.
Perché, ad esempio, non rispolverare il testo, ormai pronto dal marzo 2007, redatto dalla Commissione per la Riforma del Codice Penale, varata dal governo Prodi e presieduta dall’avvocato Giuliano Pisapia? Scopo del lavoro era la revisione dell’intero sistema delle sanzioni; il carcere veniva visto come extrema ratio, da riservare alle situazioni più gravi, mentre al contrario si prevedeva un maggiore ricorso a pene interdittive, riparatorie e pecunarie. Di tutto questo, purtroppo, ormai non si parla più, vige una sorta di congiura di silenzio, anche da parte dell’attuale opposizione che all’epoca, forza di maggioranza, aveva fortemente caldeggiato la riforma.
Ma, pur restando nell’ambito dell’attuale legislazione, sono i dati forniti dallo stesso ministero della Giustizia a offrire piste di soluzione che andrebbero affrontate con maggiore coraggio; anche in questo caso, le cifre sono eloquenti: chi sconta una pena in carcere, ha il 70% delle probabilità di tornare a commettere un reato; chi sconta la sua pena con le misure alternative(semilibertà, affidamento ai servizi sociali e altro), solo lo 0,31%. Ma anche solo un calcolo economico, potrebbe indurre a soluzioni differenti, visto che il costo giornaliero di una persona detenuta in un istituto, è nettamente superiore a quanto si spenderebbe, se quel denaro fosse investito in misure alternative, certamente più utili alla persona e alla stesa società.
È evidente che in questo momento il problema del carcere è soprattutto di natura politica, visto che le campagne di criminalizzazione sul tema della sicurezza pagano parecchio sul versante elettorale. Probabilmente, prima di ogni riforma o di maggiore attuazione delle misure esistenti, si rende indispensabile una nuova cultura della giustizia, una diversa mentalità che guardi con più fiducia all’uomo, alle sue positive potenzialità e alle responsabilità che ognuno deve esercitare perché queste possano emergere. La stessa morale sociale cristiana è rimasta troppo appiattita su un rigido concetto di giustizia retributiva, che esaurisce l’intervento sul reo alla semplice somministrazione della pena, dimenticando la giustizia salvifica di cui parla la Bibbia, attenta alla giusta considerazione del male commesso, ma anche aperta a una possibilità di revisione e di riscatto, grazie anche all’accompagnamento di una comunità presente fino al punto di ipotizzare una mediazione tra la vittima e l’autore del reato, in vista di una possibile riconciliazione.
Sono strade delicate e difficili, ma le uniche percorribili se si vuole vivere non in una società in perenne stato di lacerazione, ma tesa a realizzare i valori della pace e della convivenza.