Il mio Victor canto d’amore

Intervista in esclusiva a Joan, moglie del cantautore cileno barbaramente ucciso: le sue canzoni, il suo spirito di fratellanza, la ricerca di verità, il lavoro della Fondazione, ma anche il Cile di oggi che lascia poche speranze.
Galo Quintanilla Molina (giornalista)

Santiago del Cile – Sono le 15.25 e ci incontriamo nella hall della Fondazione Victor Jara, ente incaricato di proteggere l’eredità del cantautore cileno. L’organizzazione è stata creata ed è presieduta dalla moglie di Victor, Joan Jara, ballerina professionista che, con i suoi 83 anni, continua a praticare, a casa sua, questa grande forma di comunicazione che è il ballo. La Fondazione Victor Jara ha fatto propria la difesa dei diritti umani, soprattutto la ricerca della giustizia e di verità rispetto ai colpevoli delle atrocità commesse in Cile durante la dittatura del generale ed ex senatore a vita, Augusto Pinochet. Siamo arrivati cinque minuti prima dell’appuntamento, mi accompagna un amico che vive da 15 anni in Canada e che è particolarmente emozionato per il fatto che avrà la possibilità di conoscere Joan Jara. Noi siamo in una sala della Fondazione ad aspettare, passa una mezzoretta e a un certo punto entra una donna dai capelli bianchi, che cammina con passo fermo e sicuro. Ci invita al secondo piano. Iniziamo subito a chiacchierare.

Non canto tanto per cantare: cos’era il canto di Victor, un canto politico, sociale o contadino? 

L’unica risposta che potrei dare è che era tutte le tre cose insieme. L’ordine proposto con la domanda, non è esatto. Cominciò con l’essere un canto contadino, proseguì come canto sociale e finì con l’essere un canto politico, date le circostanze e il contesto che stava vivendo il Cile in quel momento, quando tutto divenne politico. Però il filo che collegava tutti questi aspetti – me lo confermava anche Victor – era l’amore. Era un canto d’amore, che dava sempre rilievo alla pace. Gli anni Sessanta in Cile sono stati una decade in cui il movimento sociale e politico ebbe uno sviluppo impressionante per forza e intensità. In questo senso, il canto di Victor era contestualizzato nel periodo storico in cui si viveva. Quel che mi chiedi ha molto a che vedere con la vita stessa  di Victor perché dal suo canto si intravedeva la sua esistenza, le sue attività, l’ambiente in cui stava lavorando. Come bambino, ovviamente, prima degli anni Sessanta, aveva radici contadine, visse nei campi, in Lonquén, e per lui era naturale ascoltare il vero canto contadino, era tutto naturale… anche sua madre cantava… era cantante e tutte le esperienze che egli fece, in questo periodo di vita familiare, umile e intensa, sono presenti nelle prime canzoni, senza alcun dubbio. 

Potremmo dire che Victor, come immagine nel mondo, rappresentò un momento della storia del Cile?

Si, però se avesse rappresentato solo un momento determinato lo avremmo già dimenticato. Invece, stranamente, l’immagine di Victor si va rafforzando ovunque. Credo che questo ha a che vedere con la mancanza di giustizia nel mondo, con il contenuto delle sue canzoni fortemente ispirate alla pace e alla fratellanza universale, con la forte umanità che traspariva da esse e, soprattutto, con la loro autenticità e poi con il fatto che attraverso le sue canzoni era presente il popolo del Cile. I suo testi nascevano dalla vita, dalla presenza delle persone che gli erano attorno, dai suoi amici e da coloro che incontrava nel corso dei suoi incessanti viaggi per il Cile. 

Quale fu la sua reazione quando venne a conoscenza che la giustizia aveva dichiarato colpevole una sola persona e considerò chiuso il caso? Cosa provò in quel momento?

Dopo 35 anni mi venne un senso di forte rabbia per tutte le vittime della dittatura che non avevano ricevuto giustizia e sulla cui sorte non si era mai investigato, una rabbia per i desaparecidos, per la lunga resistenza che si era sostenuta e per il fatto che si considerava Victor come un caso “emblematico”. Su quest’ultima cosa non sono d’accordo perché ogni vita umana ha lo stesso valore. È una sensazione tra disperazione e rabbia. In quel momento, mi resi conto che la famiglia di Victor era molto estesa e che tutti i suoi membri si definivano “famiglia”. La famiglia di Victor non eravamo solo noi tre, Amanda, Manuela e io, ma vi facevano parte tutti coloro che gli volevano bene. Subito la Fondazione ha lanciato un appello via internet e sono arrivate migliaia di adesioni a una lettera che avevamo scritto al giudice, nella quale si chiedeva la riapertura del caso perché c’erano molte cose da capire. Era proprio vero che “l’indagine era stata tremendamente superficiale” e quando si intravede qualche spiraglio di luce, molto facilmente si faceva un passo indietro nelle indagini. Non soltanto noi (i cileni) ma migliaia di persone in tutto il mondo si unirono in questa richiesta di giustizia e il giudice si vide costretto a riaprire il caso contro la sua volontà. 

Quali sono stati i suoi sentimenti durante il funerale simbolico a Victor Jara e la risposta così sentita del popolo cileno? 

Sono stati tre giorni in cui sono arrivate migliaia e migliaia di persone. È stato meraviglioso. Non era poi troppo inaspettato perché sapevamo che la gente di Lota (paese di miniere a sud del Cile) e di varie parti della nazione sarebbe venuta, però sono stati tre giorni ininterrotti di folla, insomma la celebrazione di una vita fino in fondo. Ovviamente ho pianto ma la meraviglia è stata che tutto il mondo veniva regalando una canzone. Erano migliaia di persone e non ci si poteva avvicinare a Plaza Brasil (di fronte alla Fondazione). C’erano code di gente intorno al blocco, durante tutti i tre giorni, notti incluse. Alla fine ci fu una processione (sino al cimitero generale) che uscì dalla Fondazione Victor Jara, quasi non si camminava. Credo che sia stato uno dei funerali più imponenti che io abbia mai visto.

Qual è la sua valutazione sull’attuale governo di destra, cominciando dall’imprenditore Sebastian Piñera? Come immagina il futuro? 

Credo che si attraversano momenti molto duri e tutti noi che siamo in uno stesso cammino dobbiamo essere uniti perché la lotta sia più forte che mai. Non c’è molta speranza, soprattutto per quanto riguarda il rispetto dei diritti umani. Ci sono tante persone oggi nel governo che sono state complici di Pinochet, ma sappiamo di avere il diritto di proseguire la lotta chiedendo giustizia e, come Fondazione, affonderemo un’ultima “battaglia”, speriamo internazionale, per raggiungere qualcosa che si avvicini alla giustizia in relazione alla sorte dei nostri cari uccisi o fatti sparire duranti gli anni della dittatura.

Per finire, come definirebbe, in poche parole, la sua vita? 

La dividerei in due parti, prima e dopo il 1973, Ho avuto una vita prima del 1973 e dopo questa data ho avuto un’altra esistenza totalmente differente. Non penso che sia stata tutta negativa perché ho avuto e ho non solo la fortuna di “sentire” la parte peggiore e più dolorosa dell’essere umano attraverso gli assassini di Victor, ma anche di apprezzare quanto siano meravigliosi i popoli del mondo, la loro capacità di amore e di solidarietà. Attraverso l’immagine di Victor sento d’esser stata circondata di amore nel corso di questa seconda vita. 

 

Usciamo dalla Fondazione pensierosi, ci sediamo per un caffè in un posto vicino e commentiamo l’intervista, concordando che è sorprendente che questa donna, carica di gran dolore, abbia la forza di continuare a lottare. La vediamo ancora camminare, con passo sicuro e a fronte alta, e ci viene in mente un passo del suo libro “Víctor Jara: Un canto inconcluso”, edito nel 1983.

“Nel mezzo della lunga fila di cadaveri riconobbi Victor. Cosa ti hanno fatto per consumarti in tal modo in una settimana? Aveva gli occhi aperti e sembrava guardare di fronte con intensità disarmante, nonostante una ferita alla testa e contusioni terribili sulla guancia. Il suo petto era crivellato e aveva una ferita aperta nell’addome, le mani sembravano appese alle braccia solo da un angolo, come se i polsi fossero rotti, però era Victor, mio marito, il mio amore. In quel momento, morì anche una parte di me”. 

 

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