Che onore suonare con Victor

Jara e gli Inti Illimani: suoni, strumenti, note e figure che rappresentano, in musica, il volto resistente dell’America Latina.
Josè Seves (musicista degli Inti Illimani Històrico)

Circolavano buone voci su quel nuovo luogo di ritrovo, “La Peña de los Parra”. Bisognava andarci, insomma, soprattutto se ti piaceva la musica e se provavi sensazioni forti nell’ascoltare la voce dei fratelli Parra in qualche programma radiofonico notturno.

Era di sabato quando gli artisti del programma della Radio Corporación sono andati per la prima volta alla “Peña de los Parra”, verso la fine dell’anno 1965; io ero tra loro. Ci affacciammo nella sala in cui vi erano circa cento persone fra personalità politiche, intellettuali, artisti di ogni genere, dirigenti sindacali e turisti. Ci sedemmo, seguendo alla perfezione il rito serale intriso di luci di candele in un ambiente informale, di bracieri e di suoni soffusi di conversazioni, come se fossimo intorno a un focolare, attendendo l’inizio di qualcosa di speciale. 

Questa volta, oltre a Patricio Manns, di cui avevo già seguito i successi e le musiche, mi attirò Victor, con i suoi umori e il suo forte carisma, capace di dar vita ai diversi personaggi e di far rivivere le situazioni di cui parlavano le sue canzoni. Era un uomo di cultura, in senso diverso, però, dal comune intellettuale: c’ era spontaneità e naturalezza nel suo modo di fare. Sapeva attirarci e trascinarci in circostanze differenti, con l’abilità di un mago, di un grande artista, gradita dalla maggior parte di coloro che lo ascoltavano. 

Più tardi – esattamente quando, alla fine del 1971, gli Inti Illimani mi invitarono a far parte del loro gruppo – ebbi modo di incontrare Victor Jara con una certa frequenza. Il vederlo, quasi casualmente, sulla porta del camerino, poco prima di una prova, con il tatto di chi ha timore di interrompere qualcosa e sa farsi piccolo piccolo, fu occasione di confronto tra noi e tra le visioni e i modi di agire che il maestro Victor e il gruppo, in modo indipendente tra loro, realizzavano e manifestavano tramite la musica. 

Poteva trattarsi, ad esempio, di qualche tema indigeno andino su cui stavamo lavorando: con i gesti ci chiedeva di continuare l’esecuzione e di preservarne, nel contempo, l’invisibilità, come a voler dire qualcosa velocemente senza interrompere e senza nascondere il suo gesto di ammirazione rispetto alla bellezza del risultato di quello che stavamo realizzando.

 

Suoni 

latinoamericani

La sua capacità di stimolarci in modo deciso e il suo entusiasmo ci trasmisero la voglia di crescere e fu a quel punto che inserimmo più elementi folkloristici, riscoprendo, nel nostro cammino, nuovi strumenti antichi, inedite sonorità e combinazioni di suoni che confermarono un risultato musicale diverso e inedito. Era, forse, questa la concretizzazione di uno dei suoi sogni: un’orchestra di suoni latino-americani.

Questo accadde in quel lontano 1971, quando, tornando dalla prima tournè in giro per l’America latina, l’Inti colombiano portò con sé un tiple. Questo era un tipo particolare di piccola chitarra, di quattro unità con tre corde metalliche ciascuna, che si usa in qualche stile musicale popolare, come il Mambuco, il Pasaje, nata sicuramente durante il periodo coloniale e sopravvissuta nel continente latinoamericano, mentre presto scomparve in Spagna. Gli amici colombiani temevano che il tiple potesse essere dimenticato anche in America latina. A vederlo e ad ascoltarlo, suonato da Salinas che tentò di realizzare melodie con la chitarra cilena, Victor provò a usarlo in un motivo meramente strumentale, che compose appositamente per un programma della televisione; nacque così “Charagua” che univa kenas, chitarre, tiple e bombo (tutti strumenti musicali, ndr). Da quel momento il tiple divenne uno strumento indispensabile nei gruppi della nuova canzone.

La collaborazione più lunga e ravvicinata che ebbi con Victor, fu in occasione della preparazione dell’opera “La Población”, di cui lui era il regista e che presentò con l’interpretazione degli attori “Huamari” e di un gruppo femminile di sei giovani studentesse, militanti della gioventù comunista. Il lavoro consisteva nel montare un repertorio di canzoni latinoamericane con cui il gruppo nasceva a vita artistica e poi proseguiva il proprio lavoro di azione sociale mediante la musica e la canzone. 

Il mio ruolo era di appoggio e di aiuto nell’esecuzione e nella combinazione degli strumenti perché le ragazze potessero poi ben “miscelare” chitarra, charango, kenas e percussioni. Il lavoro consisteva nell’eseguire ritmi diversi rispettando le diverse funzioni degli strumenti.

Sperimentazioni vocali

Nel corso delle prove, potei percepire il modo di lavorare di Victor: richiedeva molta disciplina, concentrazione e una serietà che comunque lasciava spazio a una naturale allegria. 

Faceva cantare la melodia a una delle ragazze mentre in sottofondo si creava una seconda voce. Questa non era mai esattamente uguale alla voce principale, né era troppo evidente; generalmente la faceva evolvere in movimenti vocali contrapposti che terminavano sempre con un ritmo piacevole, come se la seconda voce fosse indipendente e autonoma rispetto alla prima e come se melodicamente vivesse da sola. 

Fino a qui tutto bene; il lavoro si complicava quando si univa una terza voce, con il rischio di causare “scontri” musicali per la sovrapposizione di note. Anche se tardavamo un poco nell’individuare il conflitto, e internamente, credo, entrambi lamentavamo il nostro fallimento teorico, questo metodo naturale ed empirico manifestava la sua validità nel risultato finale.

Questa esperienza richiamava molto la mia attenzione perché non era lontana da quanto Victor aveva vissuto con il gruppo “Quilapayun”, che aveva diretto per tre anni, gruppo che sotto la sua guida aveva scoperto nuovi suoni vocali con ritmo latinoamericano. 

Si può intuire che, nel viaggio della vita e nel modo di essere di Victor, tutto si somma e in Victor il suo bagaglio era arricchito dalla sua cultura d’origine e familiare, dai canti della madre, dai giorni di lavoro in campagna, dai racconti intorno al focolare, dal campo verde pieno di suoni di Lonquen, dei misteriosi tramonti di ritorno dalla Piedra de Diablo. Insomma, da tutto quello che lui visse nei tempi dell’infanzia. 

Un’altra pietra miliare fu la sua esperienza in seminario, dove trovò riparo dopo la morte di sua madre, della quale visse il funerale fra riflessioni, dolore e domande alle forze divine sul senso della perdita e di vuoto infinito che provava, mentre la sua voce si univa al coro di aspirante sacerdote nei canti gregoriani che tentavano a decifrare il mistero.

A questa forte esperienza, si aggiunse la partecipazione di Victor al coro dell’Università del Cile e, in special modo, la sua adesione a “Carmina Burana”, nel corso della quale, dall’altezza della sua posizione nel coro, si innamorò della ballerina che sarebbe stata poi la compagna dei suoi giorni: Joan.

Anche il suo apprezzamento per la musica dei Beatles, inevitabile in quegli anni, e la sua attenzione profonda al mondo del teatro, alla danza folkloristica, lo porterà ad avventurarsi nella direzione di nuovi spettacoli multidimensionali e nella creazione di musica con giochi di dissonanze vocali che tracciavano sperimentazioni musicali di grande esito. Lavorò musicalmente in libertà, lasciando spazio alla creatività, ai suoi pensieri; lasciò aperti nuovi cammini che avrebbero avuto lunga vita, oltre il tempo e che rappresentano tuttora la sua e la nostra eredità. 

 

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