Una morte atroce

Lo scorso anno si è celebrato un funerale postumo a Victor. Sono stati tre giorni di commemorazioni. Le analisi di laboratorio sul corpo riesumato hanno confermato la brutalità dell’omicidio.
Eduardo “Mono” Carrasco (muralista)

Victor Jara ha finalmente avuto il suo funerale. Dal 3 al 5 dicembre del 2009 tutto il Cile si è fermato per commemorare il cantante ucciso senza pietà dai militari nel campo di Santiago subito dopo il golpe dell’11 settembre 1973. Allora non fu possibile celebrare il rito funebre, se non in maniera sbrigativa e clandestina. Ora che è tutta un’altra storia, l’intero Paese, o meglio, quella parte che finalmente ha preso le distanze da Pinochet, si è stretta intorno all’eroe della nueva canciòn chilena.

Il corpo di Victor era stato riesumato sei mesi prima per ordine del giudice Juan Eduardo Fuentes Belmar. Le analisi sui resti del corpo avevano confermano che l’artista è stato vittima di torture e di “multiple fratture per ferite da pallottola, che hanno provocato un shock emorragico in un contesto di tipo omicida”.

“Siamo cinquemila, qui / in questa piccola parte della città. / Quanta umanità / in preda alla fame, al freddo, alla paura, al dolore, / alla pressione morale, al terrore, alla pazzia. / Ma tutti con lo sguardo fisso alla morte.” aveva scritto il giorno prima di essere assassinato. In quello stadio, trasformato in campo di concentramento, i destini e le storie di cinquemila persone si intrecciarono. Moltissimi morirono, altri scomparvero. Altri ancora sopravvissero, ma con terribili conseguenze psicologiche. Tra questi un  professore universitario, Boris Navia. È grazie al suo racconto che sono state ricostruite le ultime ore di vita di Victor ed è grazie a lui che fu possibile far uscire dallo stadio una copia della sua ultima poesia scritta sui fogli di un taccuino di cui l’avvocato Navia ancora conserva la copertina. 

Il 12 settembre, subito dopo il rastrellamento di 600 studenti universitari fra cui Jara, un alto ufficiale si rivolse così al detenuto: “Sei tu Victor Jara, il cantautore marxista, il cantautore di merda?”. Per tre giorni lo torturano con una spietatezza ai limiti del diabolico. Quando ormai era allo stremo delle forze dopo che le sue dita furono maciullate dalle percosse e la sua lingua tagliata, fu finito a colpi di mitra. Il suo cadavere venne ritrovato nei pressi del cimitero di Santiago.

Quell’ufficiale era conosciuto nello stadio-lager come “El Príncipe”. “Il casco sugli occhi, il volto dipinto, il fucile sulle spalle, le granate in petto, una pistola alla cintura, dondolando il suo corpo nervoso e prepotente sui suoi stivali neri.”, così lo descrive Boris Navia.

Boris vide tutto: “Il suo stivale con furia ha colpito una, due, tre, dieci volte il corpo, il volto di Victor, che cercava di proteggersi come poteva con le braccia”. Ma ci sono anche altri testimoni e sono le decine di studenti e professori della UTE che in quei giorni terribili si trovavano nello stesso settore dello stadio. Grazie proprio alle loro testimonianze adesso è più facile far luce sulle responsabilità degli autori materiali dell’omicidio.

Il 15 maggio scorso il giudice Juan Manuel Fuentes aveva, infatti, chiuso ufficialmente il processo sulla morte del cantautore cileno con la condanna di Victor Manríquez, colonnello in ritiro e allora capo del campo di concentramento dello stadio. Ma la famiglia Jara si oppose a quell’unica sentenza chiedendo che fossero condannati anche gli autori materiali e morali. Ci furono ampie manifestazioni e, alla fine, il giudice decise di riaprire il processo.

Si prospetta, tuttavia, un lungo iter da seguire e da portare avanti per identificare i militari presenti allora nello stadio e per ricostruire i diversi gradi di responsabilità. 

Un paio di anni fa, la Commissione Funa, composta dai familiari delle persone scomparse e da ex prigionieri politici, inscenarono una protesta sotto gli uffici del Ministero del Lavoro.

Tuttavia l’ex colonnello non ha mai ammesso di essere “El Príncipe” e, nonostante le varie testimonianze raccolte, non si è mai potuto dimostrare che egli fosse veramente l’alto ufficiale biondo e dagli occhi chiari, responsabile della morte di Victor Jara. In Cile, come in genere in tutta l’America Latina, vige ancora un sistema di impunità fortissimo, un sistema di protezioni sistematico.

Con la riapertura del processo, Joan Turner Jara e le due figlie sperano che l’esercito collabori con la magistratura affinché vengano condannati gli autori materiali della morte di Victor. Se non ha avuto il diritto di vivere in pace, che gli si possa almeno rendere il diritto alla verità e alla giustizia da morto.

 

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