Voci di lotta
Pubblichiamo alcuni stralci della postfazione che Rodrigo Rivas ha scritto per il libro di Eduardo Carrasco, curato da Francesco Comina, “Inti-Illimani: storia e mito. Ricordi di un muralista cileno”, edito dalla casa editrice “Il Margine” di Trento. Il libro intreccia la storia della nuova canzone cilena in gran parte interpretata dagli Inti Illimani con la storia del Cile e quella particolare vicenda “politica” rappresentata dal muralismo di cui Eduardo Mono Carrasco è stato uno dei protagonisti.
Un presidente rivoluzionario
[…] Verso la fine del 1969, Victor Jara cantava ne “La preghiera del contadino” (La plegaria del labrador): “Alzati, e guarda la montagna. Da dove arrivano il vento, il sole e l’acqua. Tu, che conosci il corso dei fiumi. Tu, che hai seminato il volo della tua anima. Alzati, e guardati le mani. Per crescere, stringerla a quella del tuo fratello. Insieme andremo, uniti nel sangue. Oggi è il tempo che può essere domani. Liberaci da quel che ci domina nella miseria. Dacci il tuo regno di giustizia, e di uguaglianza”.
Il richiamo internazionalista indicava la fine dei nostri anni Sessanta. Era un periodo felice, ma non spensierato: il Cile aveva la possibilità di scegliere, per la prima volta, un presidente rivoluzionario. Il cielo sembrava alla nostra portata. Era nata Unidad Popular, votavo per la prima volta e il mio candidato si chiamava Salvador Allende. Gli Inti cantavano: “Perché questa volta non si tratta di cambiare un presidente. Sarà il popolo a costruire un Cile ben diverso”.
La sera del 4 settembre 1970, la notte elettorale, la vittoria era ormai chiara. Dalla finestra della Federazione di Studenti del Cile (FECH), Allende diceva: “Sono soltanto un uomo, con tutte le debolezze di un uomo, e senza superbia né spirito vendicativo, accetto questa vittoria che nulla ha di personale, che devo all’unità dei partiti popolari, alle forze sociali che ci hanno accompagnato [...]. Perciò dichiaro solennemente che rispetterò i diritti di tutti i cileni ma anche che [...] rispetteremo l’impegno storico che abbiamo: trasformare in realtà i programma di Unidad Popular [...]”.
A Washington, il presidente Nixon rispondeva: “Dobbiamo liberarci da quel figlio di puttana. Voglio che i nostri agenti migliori si dedichino a tempo pieno a elaborare un piano. A questo scopo, mettiamo a disposizione immediatamente 10 milioni di dollari, pronti ad aumentarli non appena sarà necessario. Cominciamo con lo strozzare l’economia del Paese”. Il suo Segretario di Stato, Henry Kissinger, sosteneva: “Non vedo perché dovremmo rimanere con le braccia incrociate se un Paese decide di diventare comunista per l’irresponsabilità dei suoi abitanti” [...].
Nel 1971, Victor Jara descrive la nuova situazione in “Vientos del pueblo”: “Ancora una volta, vogliono macchiare la mia terra con sangue operaio, quelli che parlano di libertà, ma hanno le mani nere, quelli che vogliono dividere la madre dei suoi figli, e vogliono ricostruire la croce che si è tirato dietro Cristo… Ora voglio vivere, accanto a mio figlio e a mio fratello, la primavera che tutti, costruiamo giorno dopo giorno. Non mi spaventa la minaccia, padroni della miseria. La stella della speranza continuerà a essere nostra. [...]
Gli anni duri del neoliberismo
Estate 1975: torno dalla Grecia. Appena sbarcato a Brindisi, entro in un supermercato. Dalla radio suonano “Alturas”, un brano degli Inti Illimani movimentato e malinconico composto da Horacio Salinas, con un arpeggio di distacco tra le strofe con gli strumenti a corda e tra le tre strofe con i sikus. Mi sembra di volare e cerco di capire se gli altri presenti sentono qualcosa. [...]. Comunque, mi sento a casa. Le realtà multiculturali non garantiscono una convivenza tra popoli e culture diverse che coabitano nello stesso spazio sociale. Quel brano, in quel luogo, mi fece pensare che convivevo, non coesistevo. Certo, non era ancora arrivato il tempo delle migrazioni di massa né, tanto meno, quello della Lega lombarda.
Gli anni Settanta-Novanta sono stati anni molto duri per i latinoamericani. Il dominio del neoliberismo, che oggi rinverdisce in Europa, confermava quanto aveva scritto nel 1942, Walter Benjamin ne “Sul concetto di storia”: “C’è un quadro di Klee che si chiama Angelus Novus. Vi è rappresentato un angelo che sembra in procinto di allontanarsi da qualcosa su cui ha fisso lo sguardo. I suoi occhi sono spalancati, la bocca è aperta e le ali sono dispiegate. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Là dove davanti a noi appare una catena di avvenimenti, egli vede un’unica catastrofe, che ammassa incessantemente macerie su macerie e le scaraventa ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, ridestare i morti e riconnettere i frantumi. Ma dal paradiso soffia una bufera, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che l’angelo non può più chiuderle. Questa bufera lo spinge inarrestabilmente nel futuro, a cui egli volge le spalle, mentre cresce verso il cielo il cumulo delle materie davanti a lui. Ciò che noi chiamiamo il progresso è questa bufera”.
Pressoché unanimemente, la “catena d’avvenimenti” del pensiero progressista è stata dominata a lungo dall’idea del progresso continuo. Quella dell’angelo s’incentra, invece, sullo sguardo delle vittime [...]. Per coloro che subiscono giorno dopo giorno la mancanza di protezione e di diritti umani e, contemporaneamente, sono sottoposti alla legge, il progresso è stato sempre e solo un nome. Loro sono state e sono sempre vittime, possono essere colpiti in qualsiasi istante dall’ingiustizia e dalla barbarie tramite la sottomissione al potere e alle condizioni d’oppressione che questo genera (ad esempio, tramite leggi razziste ed eccezionali). In questo senso, l’ingiustizia e la barbarie sono la condizione normale di vita degli oppressi, come barbarie politica (la mancanza di democrazia) e come barbarie economica (povertà e impoverimento). Per gli oppressi, lo stato d’eccezione era e continua a essere la regola: vivono permanentemente sotto l’ingiustizia e la barbarie. La vera novità dei giorni nostri è che, in questa marcia del gambero verso il Medioevo, il teatro dell’oppressione tende ad allargarsi. Ma questa è un’altra storia. […]
La repressione
Nell’ottobre 1988 riesco a rientrare in Cile. Si vota il referendum sulla permanenza di Pinochet al governo e il dittatore autorizza quasi tutti i fuoriusciti a rientrare temporaneamente. Ci vado da giornalista italiano. Giro un po’ il Paese. A Valparaíso ritrovo gli Inti Illimani. Cantano in piazza, canzoni vecchie e nuove, che legano la memoria al “NO” gigante come una casa che può mandare a ramengo la dittatura. La sera della vittoria pensavamo di fare festa, ma riparte la repressione. Trascorre la notte popolata da rumori di un nuovo colpo di Stato, mentre l’esercito e i carabinieri riempiono di nuovo le strade picchiando a piacere qualsiasi malcapitato/a. Alla fine il dittatore deve arrendersi. Contro ogni previsione, i cileni hanno vinto. (...)
La sera del 6 ottobre celebravamo la vittoria nel centro di Santiago, vestiti da paura, chitarre e tamburi, agghindati con la musica e i testi degli Inti, Victor, Violeta, Neruda... La profezia si era avverata: le grandi strade si riaprivano al passaggio delle donne e degli uomini liberi.
Dopo un intervallo lungo un anno, segnato dalle trattative per garantire la prosecuzione della politica economica della dittatura e l’impunità dei criminali, alla fine del 1989 iniziava l’epoca della Concertación o del neoliberismo in salsa democratica. Anche questa è un’altra storia. Da allora, la musica cilena è cambiata, molti amici se ne sono andati, ma gli Inti sono rimasti nella memoria e nello strimpellare di generazioni.
Li ho visti, l’ultima volta, nel novembre del 2008, eravamo una folla immensa, allo Stadio nazionale, non lontano dal luogo dove migliaia di persone erano state torturate e molte uccise, e dove l’Italia aveva vinto la Coppa Davis maschile nel 1974. Ci eravamo convocati per commemorare i cent’anni di Salvador Allende. Apriva la commemorazione un vecchio e caro pianista, Valentín Letelier, con “Gracias a la vida”, di Violeta. Cantavamo: “Grazie alla vita, che mi ha dato tanto, mi ha dato il suono e l’alfabeto. Con loro distinguo, la gioia dalla pena, i due materiali che conformano il mio canto. E il canto vostro che è lo stesso canto. E il canto di tutti che è il mio canto”. Poco dopo comparivano i vecchi Inti, questa volta con il cognome “storico”. E con loro abbiamo intonato, tutti insieme: “In piedi, cantiamo, che andiamo a vincere. Avanzano, ormai, bandiere di unità. E tu verrai, marciando accanto a me. Così, vedrai, il tuo canto e la tua bandiera fiorire alla luce di una nuova alba, che preannuncia la vita che arriverà. In piedi, cantiamo, il popolo vincerà. E ora il popolo, che avanza nella lotta, con voce da gigante urlando «Avanti, il popolo unito non sarà mai vinto»”.
Così, per quanto mi riguarda, il miracolo della unificazione della memoria tra generazioni separate fisicamente, era stato saldato. [...]