Il poeta dei poveri

Era molto più che un cantante e un musicista: Victor Jara, nonviolento e poeta, simbolo della resistenza cilena, voce degli oppressi e cantore della speranza negli anni durissimi della dittatura.
Francesco Comina

Victor Jara era la voce. Nel Cile degli anni Sessanta era il poeta dei poveri, il cantante degli ultimi, il pianto dei campesinos. Nel 1973 era già famoso. Aveva composto canzoni insieme a Violeta Parra, ai Quilpayùn, agli Inti Illimani. Era stato il leader dei Cuncumén. Era docente alla scuola universitaria d’arte drammatica di Santiago e aveva influenzato cantautori di tutto il mondo. Si era speso tantissimo per aiutare Salvador Allende a salire al palazzo della Moneda nel 1970. Era uno dei riferimenti per il partito comunista cileno. Ma i conservatori lo odiavano. La destra lo aveva bollato come un sovversivo. Gruppi di facinorosi lo avevano aggredito davanti alla Facoltà o in mezzo alla strada.
Nel 1973 Victor era il cantante più rappresentativo della Nueva canciòn chilena. Lui, a dire la verità, si sentiva più un attore, un narratore della vita che cresce e degli ostacoli che i poteri cercano di opporre per lacerare, sbriciolare, ferire la comunità degli uomini.
Era un nonviolento, un inguaribile democratico, un uomo che non tollerava minimamente ogni sorta di sopruso e denunciava al mondo il rischio di una società divisa per classi e schiava del mercato e del profitto.

VITTIMA DEL TERRORE CILENO
Quando ci fu il colpo di stato in Cile, l’altro 11 settembre, quello del 1973, il giorno in cui il tiranno Pinochet fece bombardare il palazzo presidenziale uccidendo l’ultima disperata resistenza di Salvador Allende, Victor Jara fu uno dei primi a vivere i giorni del terrore e della spietatezza dell’esercito golpista. Fu anche uno dei primi a essere massacrato. Lo prelevarono durante un rastrellamento all’università e lo portarono nello stadio di Santiago dove nei giorni del sogno socialista aveva suonato e cantato tante volte. Ma ora quel campo da calcio si era trasformato in un centro di detenzione dove migliaia e migliaia di giovani, sindacalisti, operai, uomini e donne della sinistra, vennero torturati senza pietà. Era la macelleria di Pinochet e dei suoi aguzzini. “Canta bastardo!” gli disse il militare prima di ucciderlo. E Victor si mise a cantare con la sua voce mite e ben intonata attraverso i microfoni del campo, il canto di libertà di Sergio Ortega “Venceremos!”, testo musicato e cantato dagli Inti Illimani.
“Venceremos, venceremos, / mil cadenas habrá que romper / venceremos, venceremos, la miseria (al fascismo) / sabremos vencer”.
Dopo poco venne trucidato a colpi di mitragliatrice e siccome era un bravo chitarrista pensarono bene, prima di ucciderlo, di fargli lo sfregio più brutale, più immondo per un musicista: gli spezzarono entrambi i polsi.
Il suo corpo vene trovato il 16 settembre, insieme a quello di cinque compagni, gettato a ridosso del muro del cimitero di San Miguel. Una donna, che amava le canzoni di Victor e che lo aveva visto più volte cantare nel rione, lo riconobbe: “Ma quello è Victor!” urlò.
Forse sapeva che sarebbe stata orribile la sua fine. La sua ultima poesia scritta fra le urla dei condannati, è drammatica: “Com’è difficile cantare / quando devo cantare l’orrore. / L’orrore che sto vivendo / l’orrore di cui sto morendo”.

CON ALI DI COLOMBA
Non cantava tanto per cantare. Victor aveva dato alla canzone popolare un cuore politico. I suoi testi erano pieni di poesia, ma la poesia era piena di terra, piena di sudore, piena di fatica. La stessa poesia di Pablo Neruda. In un Paese dove a quel tempo si moriva di lavoro, dove uomini scendevano nelle miniere per lunghe giornate e risalivano ammalati, in un Paese dove pochi se la godevano ma molti facevano la fame, dove i contadini spesso erano analfabeti e dunque ingannati dalle politiche al servizio dei latifondisti, in un Paese come il Cile compresso dalle logiche della guerra fredda e del liberismo senza regole, come si poteva cantare senza farsi carico del destino degli oppressi? Forse è un parallelismo forzato, ma la frase del pastore protestante di Dietrich Bonhoeffer pronunciata nel cuore del nazismo, “come possiamo cantare in gregoriano quando si ammazzano col gas gli ebrei?” è molto simile a quella di Victor: “Ma come possiamo cantare tanto per cantare quando nel nostro Paese la gente soffre e i bambini muoiono di fame, freddo e di malattie?”.
“Non canto per amore del canto / o perché ho una bella voce / canto perché la mia chitarra / ha insieme sentimento e ragione / Essa ha cuore di terra / e le ali di colomba / è come acqua santa / che benedice gioia e dolore /”.
Victor era un uomo di una fortissima integrità personale. Amava la poesia, il teatro, la musica. Erano per lui forme di comunicazione e di espressione sociale e culturale. Leggeva la Bibbia. Ricorda la moglie Joan, grande ballerina e coreografa, che lasciò l’Inghilterra e si trasferì in Cile per amore: “Sul comodino Victor teneva le opere complete di Miguel Hernandez e una copia della Bibbia”.
Era un uomo di pace. Gli scappò di dire un giorno che per fermare la violenza della miseria fosse possibile anche l’uso delle armi. Ammirava l’eroismo del Che a cui dedicò un canto, ma quando scrisse per i Quilapayun la canzone “El soldato”, gli vennero questi versi:
“Soldato non spararmi / non spararmi soldato! / Chi ha appuntato quelle medaglie al tuo petto? / Quante vite sono costate? / Io so che la tua mano trema / non uccidermi / io sono tuo fratello /”.

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