TESTIMONI

L’ultimo Tolstoj

Nel centesimo anniversario della sua morte, raccontiamo il profeta dell’amore nonviolento e riprendiamo il percorso da lui tracciato.
Fabrizio Truini (Già funzionario Rai )

Chi leggendo Guerra e pace ancora adolescente non si è innamorata/o del principe Andrej o dell’incantevole Nataša? Chi non è rimasta/o avvinta/o dalla passione di Anna Karenina o dalla conversione del protagonista di Resurrezione, che si pente per aver sedotto e abbandonato Katjuša? Chi ormai non più giovane, leggendo la Sonata a Kreutzer o La morte di Ivan Il’ic, non si è interrogata/o con Tolstoj sul significato dell’amore matrimoniale o sul senso della vita? Il grande romanziere russo sembra aver attraversato tutte le età, e non a caso aveva iniziato con lo scrivere Infanzia e poi Adolescenza e Giovinezza, dagli indubbi accenti autobiografici.

Lo specchio della rivoluzione

È stato giustamente notato come tutta la sua variegata opera letteraria rappresenti quasi un’estrinsecazione del suo Diario (cfr.: I diari di Lev Nikolaevic Tolstoj 1847-1910, a cura di S. Bernardini, Milano 1980). Se questo – iniziato non ancora ventenne – è pieno di serie riflessioni, di autoanalisi psicologiche e morali; quella è ricca delle più svariate espressioni della sua multiforme vita, dei ritratti di tanti personaggi del popolo russo, colti con grande acume introspettivo nelle loro storie personali, ma sempre sullo sfondo della travolgente epoca storica, che viveva il popolo russo.

Leggendo Tolstoj non solo si attraversano più vite, in particolare quelle da lui vissute da ricco aristocratico e da ufficiale dell’esercito nella guerra di Crimea, e narrate oltre che dai romanzi anche da racconti quali il Romanzo di un proprietario russo, Il taglio del bosco, Il mattino di un proprietario, Incursione, i Racconti di Sebastopoli, I cosacchi; ma si riesce a cogliere, come in un affascinante affresco, i tratti essenziali di un intero secolo della storia europea.

Infatti, le sue riflessioni per scrivere Guerra e pace partono dalle guerre napoleoniche, ma poi arrivano fin ai prodromi della rivoluzione russa. Il saggio Sul significato della rivoluzione russa del 1905 e quello Sul socialismo del 1910, scritto negli ultimi mesi di vita, attrassero l’attenzione di Lenin, il quale vide in Tolstoj “lo specchio della rivoluzione russa”, e perciò ordinò di salvare tutti i suoi scritti. Una grande opera letteraria che non finisce di essere ammirata ed esaltata da tutti i critici e da una miriade di lettori di tutto il mondo. “Lui –scrive Piero Citati nella monografia che gli ha dedicato – diventò tutti gli altri… diventò il romanziere della realtà. La contemplò con un tale furore, con un tale eccesso di partecipazione…che la rappresentazione romanzesca riuscì elettrica, scintillante, intensissima come forse non era mai riuscita, più fantastica di qualsiasi sogno” (P. Citati, Tolstoj, Milano 1984, p.30). 

Più avanti negli anni, tuttavia, scoprii che Tolstoj non era tutto qui. Leggendo le sue opere più famose, avevo amato il romanziere, ma non avevo potuto davvero conoscere interamente l’uomo, che pur in esse si doveva intravvedere. Solo leggendo i suoi scritti cd. minori (che tuttavia raggiungono i due terzi della sua vasta produzione, racchiusa in novanta volumi) di natura morale, filosofica e religiosa, ai quali egli si dedicò sempre più spesso dopo la crisi esistenziale in cui precipitò fin quasi al suicidio, si può afferrare il suo intimo segreto (su questi le preziose analisi di P. C. Bori, Tolstoj oltre la letteratura, Fiesole 1991 e L’altro Tolstoj, Bologna 1995). Troppo tardi li avevo aperti, fuorviato da una critica che quasi unanimemente li considerava scadenti, noiosi, frutto di una vecchiaia inquieta e delusa, vanamente idealista e falsamente moraleggiante.     

“I trattati nei quali Tolstoj tentò di sistemare i suoi pensieri dopo la crisi – scrive per esempio lo stesso Citati, tanto per citare un ultimo e illustre critico – sono stati composti da un mediocre ragionatore, da un noioso sofista e polemista, da un cattivo autore di parole d’ordine per folle. Mentre percorriamo queste piatte e rabbiose argomentazioni, ci chiediamo dove Tolstoj abbia nascosto la sua brillantissima intelligenza” ( P. Citati, o.c. p. 269).

Forse ai critici letterari ha fatto velo la loro deformazione professionale che valuta la scrittura prevalentemente secondo il metro della bellezza estetica. E, tuttavia, avrebbero dovuto tenere in maggior conto quanto Tolstoj si proponeva di fare nella sua vita, se già nel 1857 dopo i primissimi successi letterari, ma ben prima della gloria raggiunta anni dopo col suo romanzo più famoso, aveva scritto in una lettera: “Grazie a Dio non ho dato retta a Turgenev, che asseriva che un letterato deve essere soltanto un letterato. Ciò non è nella mia natura”. 

Certo possedeva una natura inquieta, che non si appagava delle mete raggiunte: non l’esaltante e brillante vita militare; non quella vacua da ammirato aristocratico nei salotti di Mosca o di S. Pietroburgo; e neppure quella intensa da ricco proprietario della vasta tenuta di Jasnaia Poliana, la sua prediletta Radura Serena; neppure la dedizione pedagogica verso i figli suoi e dei contadini, per i quali aveva creato una scuola; neppure la passione per la giustizia che l’aveva visto giudice di pace solo per un anno a causa delle ire dei nobili e delle vessazioni della polizia zarista; e infine, come si è detto, neppure la fama letteraria, piegata al raggiungimento non più della bellezza, ma solo del vero, costi quel che costi, come spiega nel saggio Che cos’è l’arte (a cura di F. Frassati, Milano 1978).

Tutto gli sembra vano e senza senso. Ma non si lasciò afferrare dalla disperazione della morte. La sua irruente, indomita vitalità riuscì a rialzarsi e di nuovo a cinquant’anni si pose la domanda: Che cosa fare? (a cura di L. Capo, Milano 1979).

E ricominciò a studiare storia, filosofia e teologia. E a scrivere: certo, anche bellissimi romanzi e racconti, ma soprattutto scritti dal forte impatto religioso e politico, polemici verso la Chiesa e lo Stato, che scandalizzavano e creavano insanabili lacerazioni tra i tradizionalisti e i libertari, tra i reazionari e i socialisti e gli anticlericali. Non fu capito né dagli uni né dagli altri.

Era troppo nuovo e sconvolgente quello che egli proponeva. Se come Patriarca poteva venire accettato, anzi esaltato; come Profeta irritava e veniva se non irriso, oscurato. Così pian piano questi suoi innumerevoli scritti, che a fatica avevano superato la censura, furono misconosciuti e quindi dimenticati, anche perché non più ristampati. Una coltre di silenzio avvolse la sua voce profetica. 

La forza di Dio

Tolstoj l’aveva però previsto. Era consapevole del loro destino, ma non per questo defletteva dal suo intento. Con lucidità aveva avvertito: “Se veramente vivo (in parte) secondo la volontà di Dio, è naturale che questo mondo malato e insensato non possa approvarmi” (Diari, 29/03/1884). 

Ai suoi critici di ieri e di oggi si rivolgeva con un’avvertenza: “Gli uomini che mi odiano per le loro opinioni quasi-religiose che io ho distrutto, mi amano per quelle sciocchezze (Guerra e pace e simili) che sembrano loro importanti” (Diari 6/12/1908). 

Ci fu chi subito la comprese, utilizzandone al meglio i proponimenti. Era un altro genio dell’umanità, che immediatamente afferrò il fulcro e la fonte del suo pensiero, trasgressivo perché fortemente innovativo. 

Il suo nome lo conosciamo tutti: Gandhi. (Sulla loro relazione cfr.: P. C. Bori e G. Sofri, Gandhi e Tolstoj. Un carteggio e dintorni, Bologna 1985).

Nel 1894 un amico regalò al giovane avvocato indiano, che difendeva i diritti degli immigrati in Sudafrica, una copia in inglese del libro di Tolstoj Il Regno di Dio è in voi, pubblicato appena un anno prima (cfr. l’ed. italiana: Trento 1988, a cura di G. Gazzeri, tr. di Sofia Behr nella riproduzione anastatica dell’ed. Fr.lli Bocca Roma 1894). 

Gandhi confessa ancora dopo quaranta anni, che ne fu profondamente colpito: “A quel tempo credevo nella violenza. La sua lettura mi guarì dallo scetticismo e fece di me un fermo credente nella nonviolenza (ahimsâ)… La sua vita fu una lotta costante, una serie ininterrotta di sforzi per cercare la Verità e metterla in pratica… Fu il più grande apostolo della nonviolenza che l’epoca attuale abbia dato… (Gandhi, Antiche come le montagne, Milano 1963, pp.234-5).

Ecco anche perché, nel centenario della morte del grande romanziere russo, avvenuta il 7 novembre del 1910 nella stazioncina ferroviaria di Astopovo in una simbolica fuga da quelle condizioni di vita privilegiata (fattosi, infine, povero come un mendicante vagabondo, lasciata la moglie e la famiglia che severamente pur amava, e la sua adorata tenuta che da giovane percorreva galoppando su Delirio, il suo cavallo preferito) è utile, opportuno e salutare rileggere alcune pagine di quegli scritti cd. minori, che invece dovrebbero rimanere indimenticabili per il loro essenziale messaggio di verità e d’amore e per la forza rivoluzionaria della proposta etico-politica della nonviolenza. 

 

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